Del patrimonio culturale dell’umanità fanno parte opere dell’ingegno i cui diritti economici d’autore sono scaduti e, in grande quantità, opere che non sono mai state protette dal diritto d’autore come il David di Michelangelo e l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Queste ultime rappresentano una porzione notevole del patrimonio culturale, in quanto le leggi del diritto d’autore occupano una minuscola frazione della storia dell’uomo. Basti ricordare che la prima legge moderna del diritto d’autore è rappresentata dallo Statute of Anne inglese del 1710.
L’appartenenza di un’ampia parte del patrimonio culturale al pubblico dominio potrebbe far desumere che la riproduzione – in particolare, la riproduzione digitale – dei beni culturali sia libera per ragioni commerciali e non commerciali. Così non è. L’effettiva esistenza di un regime di pubblico dominio è minacciata da istanze di controllo esclusivo avanzate da chi ha la proprietà o la custodia del bene culturale materiale oggetto della riproduzione. Tali istanze sono generalmente mosse da due obiettivi: un controllo censorio e un controllo economico. Il primo obiettivo attiene a valutazioni sulla compatibilità dell’uso con la destinazione del bene, il secondo concerne prospettive di guadagno connesse all’uso.
a) Divieti di riproduzione basati sulla proprietà del bene materiale.
b) Divieti di riproduzione basati su dichiarazioni unilaterali o contratti.
c) Divieti di riproduzione basati su discipline pubblicistiche attinenti al patrimonio culturale.
d) Divieti di riproduzione basati su diritti della personalità.
Il movimento dell’accesso aperto al patrimonio culturale – ad esempio, la rete OpenGLAM – sta profondendo energie nella promozione della libera riproduzione del patrimonio culturale. Molte istituzioni culturali nel mondo garantiscono la libera riproduzione per qualsiasi fine, commerciale e non commerciale, delle proprie collezioni fisiche e digitali. Tuttavia, l’apertura su Internet del patrimonio culturale è ancora molto lontana dal rappresentare il modello dominante.
Emblematico è il panorama Euro-italiano.
A livello dell’Unione Europea la disciplina giuridica emanata per la tutela del pubblico dominio è frammentaria, incompleta e solo parzialmente efficace. In particolare, l’art. 14 della Direttiva (UE) 2019/790 sulla riproduzione delle opere delle arti visive di dominio pubblico è una disposizione che ha uno scopo limitato e presta il fianco a interpretazioni che ne restringono ulteriormente il campo di applicazione.
A livello italiano si sta facendo avanti l’idea che gli articoli dal 106 al 108 del Codice dei beni culturali (D.lgs. 2004/42) attribuiscano allo Stato il potere di controllo esclusivo delle riproduzioni. Si badi che tale controllo esclusivo non riguarderebbe solo le riproduzioni effettuate sul luogo dove è collocato fisicamente il bene materiale, ma si estenderebbe anche alle riproduzioni delle copie già effettuate sul luogo e comunicate al pubblico. In particolare, l’estensione riguarderebbe anche le copie digitali reperibili su Internet. In alcune interpretazioni giurisprudenziali il potere di controllo esclusivo derivante dal Codice dei beni culturali si assocerebbe a un preteso diritto all’immagine del bene culturale fondato sulla disciplina dei diritti della personalità rinvenibile nella Costituzione e nel Codice civile.
L’esempio del patrimonio culturale dimostra che il pubblico dominio è minacciato non solo dall’estensione della proprietà intellettuale ma anche dall’irrompere sulla scena giuridica della pseudo-proprietà intellettuale.
Art. 4, 13, 18, L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio
Art. 2, Directive 2001/29/EC of the European Parliament and of the Council of 22 May 2001 on the harmonisation of certain aspects of copyright and related rights in the information society
C. Sganga, S. Scalzini, From Abuse of Right to European Copyright Misuse: A New Doctrine for EU Copyright Law (July 31, 2016). International Review of Intellectual Property and Competition Law (IIC), 2017, vol. 48(4), pp.405-435. (link)
EUCJ, Nintendo Co. Ltd v. PCBox srl (Causa C‑355/12) (2014) (link)
Art. 6, Directive 2001/29/EC of the European Parliament and of the Council of 22 May 2001 on the harmonisation of certain aspects of copyright and related rights in the information society
Art. 17, Directive 2019/790 of the European Parliament and of the Council of 17 April 2019 on copyright and related rights in the Digital Single Market and amending Directives 96/9/EC and 2001/29/EC (link)
Con un provvedimento di quaranta pagine dell’11 gennaio scorso il Garante per la protezione dei dati personali ha dichiarato, in base al Regolamento dell’Unione Europea 2016/679 (GDPR) e al Codice italiano in materia di dati personali (d.lgs. 2003/196), l’illiceità del trattamento dei dati personali effettuato dal Comune di Trento nell’ambito dei progetti di ricerca MARVEL e PROTECTOR. Si tratta di studi finanziati dall’Unione Europea e connessi al progetto “Trento smart city”. Tali ricerche prevedevano la raccolta di informazioni personali in luoghi pubblici attraverso telecamere di videosorveglianza e microfoni nonché da social network al fine di rilevare, tramite software di intelligenza artificiale, potenziali situazioni di pericolo per la pubblica sicurezza anche con riferimento a luoghi di culto religioso. La finalità del trattamento dei dati personali era perciò l’addestramento dei software di intelligenza artificiale.
Il Garante privacy ha ordinato al Comune di Trento il pagamento di una sanzione di 50.000 Euro, riducibili alla metà se il pagamento avviene entro 30 giorni, ha vietato di trattare i dati personali già raccolti e ha imposto la cancellazione degli stessi. Infine, l’autorità garante ha disposto la pubblicazione del provvedimento sul proprio sito web. La sanzione non è elevata perché il Garante ha riconosciuto al Comune di aver agito in buona fede. Ma i motivi di illeceità rilevati dal Garante sono gravi e molteplici: assenza di una base giuridica per la liceità del trattamento; insufficiente trasparenza del trattamento; mancanza delle misure necessarie a proteggere i dati e a ridurre i rischi.
A parere del Garante, la mancanza di una base giuridica è tanto più grave per il fatto di riguardare dati estremamente sensibili, relativi a crimini e a convinzioni religiose, oggetto, nell’ambito della normativa sulla privacy, di una disciplina speciale volta rafforzare la tutela delle persone. Sul profilo della trasparenza l’autorità ha evidenziato che le informative di primo (segnaletica e cartelloni stradali di avvertimento) e di secondo (il sito web del Comune) livello erano carenti, cioè non mettevano le persone che passavano nelle zone sorvegliate di conoscere i dettagli relativi al trattamento dei dati personali. Sul piano delle misure di prevenzione il Garante ha rilevato che le tecniche di anonimizzazione erano deficitarie e non era stata effettuata la valutazione d’impatto dei trattamenti previsti sulla protezione dei dati personali. Un altro profilo di gravità attiene al fatto che i dati erano destinati ad essere comunicati ai partner dei progetti internazionali (nell’ambito del progetto PROTECTOR i dati erano condivisi con la Polizia di Anversa e con il Ministero dell’Interno della Bulgaria).
Sul proprio sito web il Comune il 24 gennaio affermava che avrebbe valutato nei giorni successivi se presentare opposizione al provvedimento del Garante davanti al giudice ordinario. Il 30 gennaio il Sindaco del Comune di Trento ha rilasciato un’intervista al quotidiano La Repubblica. Secondo quanto riportato dal giornale “per il sindaco la questione non è solo trovare un equilibrio tra il rispetto della privacy e la garanzia di sicurezza, ma anche ‘realizzare degli strumenti per conto nostro o rimanere indietro e dover utilizzare quelli degli altri, che magari li progetteranno con minore cura’”.
Quest’ultima asserzione, se presa alla lettera, induce a porsi domande molto serie e impellenti.
In un Paese democratico come l’Italia, la prevenzione e il contrasto al crimine commesso negli spazi pubblici sarà sempre più affidata a tecnologie digitali di controllo pervasivo come videocamere, microfoni, sensori, software di monitoraggio dei social network?
Per smart city si deve intendere una città che affida la sua sicurezza alla sorveglianza di massa?
Quale fondamento scientifico hanno i software di intelligenza artificiale che promettono di rilevare potenziali situazioni di pericolo per la pubblica sicurezza?
Se questo fondamento scientifico esiste, i cittadini hanno diritto a conoscere la logica alla base degli algoritmi di intelligenza artificiale?
Si vuole dotare la polizia locale di maggiori poteri di intervento nel campo della sicurezza pubblica?
L’Europa è destinata ad avvicinarsi sempre di più ai Paesi occidentali e non (si pensi ad alcuni Paesi asiatici) dove la sorveglianza tecnologica di massa è ormai è un dato acquisito e giudicato compatibile con il diritto e la giustizia?
Davvero l’alternativa è tra produrre in proprio una tecnologia predittiva o acquistarla da altri?
Tali quesiti non possono essere risolti solo affidandosi a un’interpretazione più o meno sofisticata di regolamenti europei e leggi nazionali, ma attengono a scelte politiche che devono muoversi nel perimetro delle norme costituzionali poste a fondamento delle società europee democratiche. Il vagheggiato bilanciamento tra privacy (libertà) e sicurezza implica la responsabilità di dover scegliere qual è il piatto della bilancia che pesa di più.
R. Caso, A margine del volume “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?” a cura di Daniele Manacorda e Mirco Modolo, Pacini Editore, 2023, 01.02.2024, versione 2.0 Zenodo
I. In meno di duecento pagine, immagini incluse, il volume curato da Daniele Manacorda (archeologo) e Mirco Modolo (archeologo e archivista) offre una sintesi efficace dell’acceso dibattito sul regime giuridico delle immagini dei beni culturali. Il libro raccoglie gli atti di un convegno promosso dalla Fondazione Aglaia e svoltosi a Firenze il 12 giugno 2022.
In buona sostanza, si tratta di un manifesto multidisciplinare per la liberalizzazione delle immagini del patrimonio culturale. Lo si evince già dalla copyright notice che recita testualmente: “le immagini pubblicate in copertina e alle pp. […] sono soggette ai vincoli d’utilizzo propri delle riproduzioni di beni culturali pubblici di cui agli art. 107-108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, argomentatamente contestati in queste pagine […]”.
Insomma, i curatori non si ammantano di finta neutralità – un vizio in cui spesso cadono i giuristi – ed esplicitano subito le proprie convinzioni. Tuttavia, il volume offre anche prospettive differenti e dà conto sia nel testo sia nell’apparato bibliografico di chi argomenta contro la liberalizzazione delle immagini, a cominciare dagli esponenti della Società italiana per l’ingegneria culturale.
II. La trattazione, preceduta dalla premessa di Carolina Megale e dai saluti di Paolo Baldi, è divisa in tre parti: un’introduzione con i due capitoli dei curatori dell’opera, una seconda parte nella quale si offrono punti divista di studiosi con diverse competenze nei campi del diritto (Giorgio Resta), dell’economia (Massimo Fantini), della tutela-valorizzazione (Laura Moro) e della fruizione dei beni culturali (Grazia Semeraro, Andrea Brugnoli) e una terza e ultima parte che racchiude alcune esperienze maturate nel settore pubblico e privato (Daniele Malfitana, Antonina Mazzaglia, Martina Bagnoli, Beppe Moiso, Tommaso Montonati, Claudia Baroncini, Stefano Monti, Riccardo Falcinelli, Iolanda Pensa, Fabio Viola).
Nell’addendum al primo capitolo introduttivo Daniele Manacorda riferisce delle novità sopraggiunte successivamente allo svolgimento del convegno e in particolare dell’emanazione del d.m. dell’11 aprile 2023, n. 161, linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali del Ministero della Cultura. A tal proposito Manacorda rileva “con questo decreto si torna drammaticamente indietro nel tempo: viene anche ristabilito addirittura il pagamento per la riproduzione di immagini su riviste scientifiche, colpendo duramente i giovani in un settore assai delicato della loro crescita professionale”.
Il volume va letto in connessione con altri contributi che sono stati pubblicati di recente sul tema. Mi riferisco in particolare al numero 3 del 2023 della rivista Aedon in cui i curatori del libro dialogano con altri esperti e in particolare con alcuni cultori del diritto amministrativo nonché a un’intervista di Eleonora Landini al direttore del Museo Egizio Christian Greco apparsa con il titolo “La cittadinanza cresce al museo” sulla versione online della rivista Il Mulino in cui si parla anche dell’Open Access alle immagini dei beni culturali (un tema approfondito dal capitolo di Beppe Moiso e Tommaso Montonati proprio con riferimento all’esperienza della prestigiosa istituzione culturale torinese).
III. Leggendo le pagine di “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?” si comprende che il regime giuridico relativo alle immagini dei beni culturali è complesso e contradditorio. Complesso perché si pone all’incrocio di almeno quattro discipline: la proprietà intellettuale, i diritti della personalità, la tutela dei beni culturali, la disciplina dei dati aperti della pubblica amministrazione di derivazione europea. Complesso altresì perché attiene al bilanciamento diritti costituzionali che, senza una chiara visione di fondo, rischia di diventare un’inconcludente acrobazia ermeneutica. Complesso, infine, perché – come spiega il documentato e approfondito contributo di Mirco Modolo – l’attuale legislazione è frutto di una lunga e altalenante storia in cui le spinte alla liberalizzazione si sono dovute continuamente confrontare con controspinte tese ad alimentare le istanze proprietaristiche dello Stato. L’esito attuale con cui si confronta l’interprete è perciò un patchwork pasticciato, la cui prima vittima è la (mitica) coerenza dell’ordinamento giuridico.
Il regime giuridico è contradditorio perché non si comprendono appieno le ragioni che muovono contro la liberalizzazione delle immagini, legittimando un potere di controllo esclusivo dello Stato sulla riproduzione dei beni culturali. Si tratta di nutrire prospettive di guadagno da parte dello Stato che spera di poter metter in atto, anche non si sa come, una tutela globale del suo diritto? La commercializzazione delle immagini dei beni culturali dello Stato offrirebbe opportunità di rimpinguare le magre casse delle istituzioni culturali a dispetto di quanto anche di recente segnalato dalla Corte dei conti e rilevato in alcuni dei capitoli – in particolare quello a firma di Massimo Fantini – che toccano il tema? Oppure perché lo Stato si vuole riservare il potere di decidere chi e come può riprodurre i propri beni culturali vagliando la compatibilità dell’uso con la finalità (decoro) del bene? Non è solo lo spettro di un potere censorio, denunciato in particolare da Daniele Manacorda, a destare preoccupazione, ma anche lo sprezzo del ridicolo. Perché questo potere di valutazione apparterrebbe allo stesso Stato che ha varato di recente e per mano del Ministero del Turismo la campagna di promozione del Belpaese denominata “Open to Meraviglia” nell’ambito della quale la povera e (almeno in questo caso) davvero innocente Venere di Botticelli veniva trasfigurata in influencer, prima che questa figura professionale perdesse – almeno degli occhi dei diversamente giovani – un po’ del suo appeal per le note vicende attinenti a panettoni, bambole e (finta) beneficienza.
La contraddizione emerge con più evidenza proprio con riguardo ai casi portati davanti ai tribunali italiani dallo Stato riguardanti opere celeberrime come il David e l’Uomo Vitruviano ricostruiti in chiave sistemica e comparata dal lucido e incisivo contributo di Giorgio Resta. In questi casi, lo Stato ha agito contro la riproduzione non autorizzata per fini commerciali dei beni culturali da parte di imprese note e con forza commerciale (in parole brutali, ottimi pagatori). Ha agito per rivendicare l’incompatibilità con la finalità del bene culturale o per ottenere, a violazione avvenuta, un cospicuo risarcimento del danno da ottimi pagatori? Se le imprese con capienza economica interessate a utilizzare immagini di beni culturali dovessero mangiare la foglia e guardare ad altre e gratuite fonti come gli archivi delle decine di musei che all’estero praticano l’accesso aperto o, con riferimento alle immagini di beni culturali fuori dal controllo dello Stato italiano, a Wikipedia e Wikicommons al nostro Leviatano-azienda rimarrebbe con tutta probabilità solo la “clientela povera” che fa capo in gran parte all’editoria scientifica di nicchia (quella delle university press o delle case specializzate) e non ai grandi oligopoli come Elesevier, Springer-Nature e compagnia bella. Le prospettive di guadagno crollerebbero drammaticamente e in molti casi gli introiti si ridurrebbero a ciò che si incassa oggi tramite una partita di giro dei soldi pubblici, cioè dei contribuenti (ad es., nel caso in cui la casa editrice dell’Università pubblica X paga il museo statale Y per la riproduzione dell’immagine del bene Z). Se un problema relativo allo sfruttamento commerciale c’è, si colloca sul piano del ruolo che le Big Tech giocano nella gestione delle immagini, ma evidentemente non è un problema che può essere affrontato mediante derive proprietaristiche degli Stati.
IV. Prima di chiudere, occorre spendere qualche parola sui due maggiori problemi innescati dall’idea di un controllo esclusivo delle immagini dei beni culturali da parte dello Stato che si innesta sulla complessità e sulle contraddizioni sommariamente riassunte.
La fine del pubblico dominio. Secondo la ricostruzione più corretta il pubblico dominio costituisce, in riferimento alle libertà fondamentali di informazione e di espressione del pensiero, la regola mentre i diritti di esclusiva costituiscono l’eccezione. Quando il legislatore disciplina i diritti di esclusiva pone necessariamente limiti di durata e di ampiezza all’esclusiva. Ad esempio, il diritto d’autore scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore e non copre le idee, copre solo la forma espressiva delle idee. Tutta la proprietà intellettuale, intesa come macrocategoria che comprende diritti d’autore, brevetti per invenzione, marchi, disegni industriali, corrisponde a questo principio. Si tratta di un pilastro delle società democratiche che trova una declinazione, illustrata nel contributo di Resta, in un altro principio: il numero chiuso dei diritti di proprietà intellettuale. Solo il legislatore può, con le tecniche di bilanciamento tipiche del diritto privato, porre nuovi diritti di esclusiva. Non possono farlo i giudici, non possono farlo gli stessi legislatori ricorrendo, mediante il diritto pubblico, a forme camuffate e anomale di proprietà intellettuale (o pseudo-proprietà intellettuale).
Il diritto liquido e la confusione totale. Chi scrive, da buon realista, non nutre nessuna nostalgia per una vagheggiata (e mai esistita) epoca d’oro in cui il diritto corrispondeva a un robusto, stabile e giusto “sistema”. Se stabilità esiste, molto spesso è quella imposta dai più forti ed è quindi fonte di ingiustizia. Nel caso del regime giuridico italiano delle immagini dei beni culturali non c’è stabilità, ma non c’è nemmeno evoluzione verso i modelli più avanzati come quelli olandese e americano, c’è solo molta confusione. Mentre buona parte del più recente dibattito si è concentrata sul d.m. 2023/161 contenente le linee guida per gli importi di canoni e concessioni, che è probabilmente una sorta di walking dead, il volto più inquietante del controllo esclusivo dello Stato è costituito dalla giurisprudenza creativa (e, appunto, confusa) dei Tribunali italiani in materia di immagine del bene culturale. A parere di alcuni giudici, il controllo esclusivo dello Stato troverebbe fondamento nel Codice dei beni culturali e nelle norme del Codice civile che proteggono l’immagine delle persone. Insomma, un esempio paradigmatico di distruzione del pubblico dominio e violazione del principio del numero chiuso dei diritti della proprietà intellettuale, mediante l’introduzione giurisprudenziale nell’ordinamento di una pseudo-proprietà intellettuale mascherata da diritto della personalità.
Inutile dire che i temi qui solo approssimativamente accennati sono trattati con maestria e passione in un libro di cui si consiglia vivamente la lettura e che ha un’unica pecca: quella di non essere pubblicato, per coerenza con il manifesto culturale che rappresenta, in Open Access (anche se i singoli testi che compongono il volume sono rilasciati con licenza CC-BY).