Osservazioni di AISA sullo schema di decreto legislativo in attuazione della Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale per l’uso della Commissione XIV del Senato della Repubblica. Il documento inviato al Senato è visibile qui.
Il testo del documento è riprodotto qui di seguito.
“Spett.le Segreteria 14a Commissione permanente – Politiche dell’Unione europea Senato della Repubblica
Trento, 15 settembre 2021
Oggetto: Schema di decreto legislativo in attuazione della Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale. Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare n. 295 – XVIII Legislatura.
Con riferimento al documento in oggetto, l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA), che aveva partecipato alle audizioni informali presso la XIV Commissione permanente (Politiche dell’Unione Europea) del Senato della Repubblica Italiana sul disegno di legge n. 1721 (Legge di delegazione europea 2019), intende proporre alcuni rilievi critici.
È forse superfluo ricordare che, nelle procedure legislative, la consultazione dei portatori di interesse risponde a regole e prassi volte a principi di pubblicità, trasparenza e inclusione. Questi principi sono stati in questa occasione consapevolmente calpestati dal legislatore. La direttiva 2019/790 è un testo normativo che ha diviso il Parlamento europeo, suscitato una valanga di critiche da parte degli accademici esperti della materia e alimentato un vasto movimento di opinione fortemente contrario alla sua approvazione. Le modalità anomale e opache con le quali si sta procedendo alla sua attuazione in Italia renderanno ancor più debole il risultato finale.
b) La mancanza di una visione d’insieme sulla proprietà intellettuale di una società democratica
La direttiva 2019/790 e la sua attuazione in Italia mediante modifica della l. 22 aprile 1941, n. 633 (legge sul diritto d’autore o lda) ripropongono la classica visione unionale che riduce il diritto d’autore a una mera questione di mercato. Invece, il diritto d’autore è un pezzo fondamentale della democrazia. La misura e il modo con cui la comunità scientifica può pubblicare e condividere i risultati della ricerca influiscono sul modo in cui evolve o involve una democrazia. Spazi più ampi di libertà nella pubblicazione e nella condivisione dei risultati della ricerca scientifica si traducono in maggiore libertà accademica e contribuiscono allo sviluppo di un dibattito pubblico e critico sulle dinamiche politiche ed economiche. Viceversa, vincoli più stringenti, come quelli che derivano da diritti di esclusiva – peraltro, sempre più attributi in via originaria e diretta agli intermediari commerciali e non agli autori – restringono i margini di libertà di informazione ed espressione del pensiero.
In buona sostanza, la direttiva 2019/790 guarda al diritto d’autore del mercato unico digitale come una questione tra intermediari commerciali vecchi (gli editori) e nuovi (Big Tech e grandi piattaforme di Internet). I cittadini, gli autori, gli scienziati, gli insegnanti, le università, le scuole, gli istituti di tutela del patrimonio culturale sono collocati ai margini della scena. La loro tutela è affidata a strumenti residuali e macchinosi come le eccezioni e limitazioni ai diritti di esclusiva. Mentre i diritti di esclusiva vengono rafforzati, e la responsabilità per la loro violazione aggravata, il promesso rafforzamento delle eccezioni e limitazioni si traduce in un corpo normativo intricato, confuso, contradditorio e prono agli interessi degli intermediari commerciali.
A ben vedere, la direttiva 2019/790 si colloca con coerenza nell’alveo di un’ampia strategia dell’Unione Europea che, persino in epoca pandemica, ripropone come formula magica l’equazione “più esclusive = più innovazione” (si veda la Comunicazione della Commissione UE COM(2020) 760 final del 25.11.2020 che contiene il Piano d’azione sulla proprietà intellettuale per sostenere la ripresa e la resilienza dell’UE). Nonostante dati e teoria della proprietà intellettuale smentiscano l’equazione, il legislatore unionale e quello nazionale procedono sicuri verso un progressivo rafforzamento delle esclusive, focalizzandosi solo ad alcuni interessi particolari e smarrendo la visione ampia e lungimirante che guarda agli interessi generali di una società democratica.
Un fugace sguardo all’inizio della storia del diritto d’autore continentale può aiutare a comprendere il punto. I legislatori che approvarono, durante la Rivoluzione francese, la prima legge europea sul diritto d’autore erano infatti ben consapevoli della sua natura politica, cosmopolitica e pubblica prima che commerciale e privata. “Con la stampa” – sosteneva la relazione con la quale Sieyès presentava la sua proposta – “la libertà non è più confinata in repubbliche di piccole dimensioni, ma si espande per regni ed imperi. La stampa è, per l’estensione dello spazio, quello che era la voce dell’oratore nella piazza pubblica di Atene e di Roma”[1] Ma, a quanto pare, i legislatori europei e italiani, pur deliberando su spazi paragonabilmente ampi, non hanno occhi che per piccoli interessi.
A livello italiano, la controprova della focalizzazione sugli interessi degli intermediari commerciali è offerta dalla stasi di una delle poche iniziative legislative che puntava al rafforzamento del diritto dell’autore scientifico. Il riferimento è alla proposta di legge Gallo (DDL 1146 Modifiche all’articolo 4 del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, nonché introduzione dell’articolo 42-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di accesso aperto all’informazione scientifica). La proposta, la cui ultima discussione in Parlamento risale al novembre 2019, prevede l’introduzione dell’art. 42-bis nella legge sul diritto d’autore volto a riconoscere all’autore il diritto di ripubblicare la propria opera scientifica in accesso aperto.
c) Conclusioni
Alla luce del poco tempo messo a disposizione non è possibile formulare osservazioni di dettaglio sulle singole disposizioni normative dello schema di decreto legislativo.
L’AISA chiede espressamente alla Segreteria della 14a Commissione permanente di rendere pubblico questo documento sul sito web del Senato della Repubblica.
Cordialmente,
Prof. Roberto Caso
Presidente dell’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta
[1] Sieyès, Emmanuel Joseph (1790) Rapport de M. l’abbé Sieyès sur la liberté de la presse, et projet de loi contre les délits qui peuvent se commettre par la voie de l’impression, et par la publication des écrits et des gravures, http://www.copyrighthistory.org/cam/tools/request/showRecord?id=record_f_1790″
Pubblicato (anche in Open Access) il libro di Paolo Guarda su “Il regime giuridico dei dati della ricerca scientifica”. Nel libro si parla anche di Open Science e Open Access
1) Quali sono gli elementi fondamentali previsti nella direttiva dell’Unione europea circa il diritto d’autore connesso al mercato digitale?
Gli scopi dichiarati della direttiva 2019/790 sono l’adeguamento e il completamento dell’armonizzazione del quadro normativo dell’Unione Europea sul diritto d’autore e sui diritti connessi con riferimento al nuovo contesto digitale. Tale intervento si propone inoltre di porre rimedio all’attuale stato di incertezza giuridica che caratterizza la materia. La direttiva interviene su molteplici aspetti. I principali sono i seguenti:
a) eccezioni e limitazioni a diritto d’autore e diritti connessi nell’ambiente digitale e nel contesto transfrontaliero; b) diritto connesso dell’editore su pubblicazioni di carattere giornalistico (art. 15); c) responsabilità dei prestatori di servizi online (ad es. YouTube) che memorizzano contenuti caricati dagli utenti (art. 17);
Al di là degli obiettivi di fondo, la principale (e reale) finalità della direttiva è di correre in soccorso di alcuni intermediari del mercato della creatività (quelli che hanno operato il lobbying più efficace): ovvero i grandi editori della carta stampata, della musica e del cinema messi nell’angolo dai grandi prestatori di servizi online (le grandi piattaforme) della galassia americana GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft).
L’acceso dibattito su questo testo normativo si è, non a caso, focalizzato sull’art. 15 (diritto connesso sulle pubblicazioni giornalistiche) e sull’art. 17 (responsabilità dei prestatori di servizi online).
Nella visione del legislatore europeo il diritto d’autore è essenzialmente una questione di equilibri di potere tra grandi intermediari vecchi (editori) e nuovi (piattaforme). In altri termini, come dice il titolo della direttiva, il diritto d’autore è solo una questione di mercato. Ci si dimentica che il diritto d’autore non riguarda solo il mercato, ma diritti fondamentali come la libertà di espressione, il diritto di accedere e di condividere informazioni e conoscenza. Nell’ottica miope e distorta del legislatore europeo, la direttiva mira a colmare il c.d. value gap, ovvero il divario tra ciò che viene messo a profitto dalle grandi piattaforme americane e quanto riescono a guadagnare gli editori europei. Insomma, il diritto d’autore viene impropriamente utilizzato come strumento per riequilibrare il potere dei grandi intermediari.
È facile prevedere che la direttiva è destinata per certo a fallire negli obiettivi di fondo e molto probabilmente nel soccorso ai grandi editori europei. Il risultato del processo di attuazione, ancora in corso in Italia come in molti stati membri UE, sarà quello di un quadro normativo frammentato, incerto e fortemente squilibrato a favore di potenti interessi commerciali.
II) DECRETO ATTUATIVO ITALIANO
2) Lo “schema di decreto legislativo” circa l’attuazione della direttiva (UE) 2019/790 -sul diritto d’autore- quali innovazioni prevede?
Lo schema di decreto legislativo sembra distaccarsi significativamente in alcuni punti sia dalla scarna legge delega sia dalla verbosa direttiva. Come rilevato dai primi commentatori dello schema di decreto, il rischio di una violazione del diritto europeo e di un eccesso di delega è concreto. Ad esempio, con riferimento al diritto connesso degli editori di pubblicazioni giornalistiche si stabilisce a favore degli editori un diritto di riproduzione e comunicazione al pubblico. Il diritto di esclusiva è negoziabile dalle parti. Ma lo schema di decreto stabilisce che l’utilizzo delle pubblicazioni giornalistiche oggetto del contratto tra editori e prestatori di servizi deve corrispondere a un c.d. equo compenso. Di più, lo schema di decreto regolamenta la negoziazione tra editori e piattaforme sottoponendola al controllo dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM). Insomma, una sorta di mercato supervisionato dallo Stato. Come dire che gli editori non hanno sufficiente potere negoziale nei confronti delle piattaforme e devono appoggiarsi allo Stato. Ovviamente tutto questo ha un costo per le tasche dei cittadini che dovranno pagare attraverso la fiscalità generale il mantenimento di questo pesante e farraginoso meccanismo. È molto probabile, inoltre, che lo stesso meccanismo generi un notevole contenzioso con ulteriori costi che ricadranno sulle casse pubbliche.
3) Del Decreto italiano vi sono elementi migliorabili?
Tutto il decreto è migliorabile. Sarebbe meglio riscriverlo da cima a fondo. In ogni caso, gli errori più gravi sono a monte, nella direttiva. Il legislatore europeo non ha ascoltato le voci di chi chiedeva un maggiore equilibrio tra titolari del diritto di esclusiva e tutti gli altri portatori di interessi a cominciare dai fruitori delle opere e dei materiali protetti che operano nel mondo dell’università, della scuola e delle istituzioni culturali. Ad esempio, centinaia di accademici esperti di proprietà intellettuale avevano bocciato senza appello in una lettera aperta il diritto connesso degli editori sulle pubblicazioni giornalistiche. Non si negava il problema della concentrazione di potere economico e informativo nelle mani delle grandi piattaforme, ma si proponeva di affrontarlo con strumenti giuridici diversi dal diritto d’autore (ad es., il diritto antitrust e il diritto tributario). L’istituzione di un nuovo diritto connesso ha precedenti fallimentari. Nel 1996 sotto la pressione di alcuni gruppi di interesse facenti capo alle imprese che gestiscono banche dati, il legislatore comunitario istituì un diritto connesso a favore del costitutore delle banche dati con lo scopo dichiarato di avvantaggiare le imprese europee rispetto a quelle americane. L’idea corrispondeva a un’equazione: più protezione è uguale a vantaggio competitivo. L’obiettivo di politica del diritto è stato un fallimento totale: non solo le imprese europee non hanno ottenuto alcun vantaggio competitivo, ma il diritto connesso sulle banche dati ha prodotto effetti collaterali nel campo della didattica e della ricerca, impedendo la libera circolazioni di dati e informazioni. Oggi a distanza di 25 anni la Commissione europea ha lanciato una consultazione pubblica per un’eventuale revisione della direttiva. Insomma, gli errori del passato non hanno insegnato niente.
III) EDITORI ITALIANI
4) Gli editori italiani quali vantaggi economici potranno apprezzare in concreto? Vi è una stima del business?
Distinguerei i grandi editori, che forse potranno ricevere – almeno nel breve periodo – qualche vantaggio economico, dai piccoli editori e da altri intermediari che rischiano di essere schiacciati. Il risultato finale consisterà, molto probabilmente, in una sensibile riduzione del pluralismo delle fonti di informazioni.
5) Un esempio concreto: Google quanto e come riconoscerà il compenso ad un sito di news di un giornale nazionale piuttosto che ad agenzia di stampa?
Bisognerà attendere il regolamento dell’AGCOM che determinerà i criteri per stabilire il c.d. equo compenso. In ogni caso, alcuni criteri generali sono già fissati dallo schema di decreto e sono destinati ad avvantaggiare i grandi editori e le grandi testate.
6) Il singolo autore/editore chi dovrebbe contattare e con quali modalità?
Il diritto spetta all’editore e non all’autore. L’editore riconosce poi all’autore una quota compresa tra il 2 e il 5 per cento dell’equo compenso ottenuto dal prestatore dei servizi della società dell’informazione (piattaforma Internet). Una delle parti interessate avvia la negoziazione. Se non si raggiunge un accordo, ci si può rivolgere all’AGCOM per la determinazione dell’equo compenso. Se anche la cifra determinata dall’autorità non porta alla stipula del contratto, ci si può rivolgere al giudice. Invece gli spazi di libertà dei fruitori delle pubblicazioni giornalistiche – tra i quali ci sono ovviamente anche agenzie di stampa, editori e giornalisti – sono affidati a una disposizione che sottrae all’esclusiva del diritto connesso gli utilizzi privati o non commerciali da parte di singoli utilizzatori, i collegamenti ipertestuali, utilizzo di singole parole o estratti molto brevi. Lo schema di decreto definisce l’estratto molto breve “qualsiasi porzione che non dispensi dalla necessità di consultazione dell’articolo nella sua integrità”. La formula è talmente ambigua da candidarsi a uno dei più potenti generatori di contenzioso. Insomma, avrebbe meglio figurato in un gioco agostano da Settimana enigmistica.
IV) STAKEHOLDERS
7) Quali player istituzionali e privati sono stati coinvolti dal Governo italiano? L’AGCOM e diverse associazioni di categoria. Una costante degli ultimi anni è di accrescere il potere dell’AGCOM nella materia. Invece, sarebbe stato bene che la materia fosse lasciata alla competenza esclusiva del giudice ordinario.
8) Vi sono soggetti che ancora devono essere sentiti?
Mentre il Parlamento ha coinvolto nelle audizioni anche i rappresentanti di interessi facenti capo al mondo no profit, della ricerca scientifica e delle istituzioni del patrimonio culturale, il Ministero della cultura si è “dimenticato” di consultare alcuni portatori di interessi ascoltati in Parlamento. Si tratta di una procedura davvero singolare, anche in considerazione del fatto che gli elenchi dei soggetti ascoltati in Parlamento è pubblico. Inoltre, la consultazione pubblica non è stata lanciata dal MIC con le consuete procedure che consentono di partecipare e seguire l’intero processo – annuncio del ministero sul proprio sito web, pubblicazione delle risposte dei portatori di interesse ecc. – ma chiamando singolarmente gli stakeholder.
V) MINISTERO CULTURA
9) Quale è il ruolo propulsivo del Ministero alla Cultura?
Il ruolo del Ministero sembra decisivo. La materia del diritto d’autore fa capo alla struttura burocratica del MIC. Peraltro, il MIC dispone per legge di un Comitato consultivo permanente che ha emanato un parere sullo schema di decreto. Mi risulta che il parere non è pubblico. Uno dei membri del comitato ha dichiarato alla stampa che il parere è stato dato su un testo completamente diverso da quello che il Governo ha trasmesso al Parlamento. Ovviamente, non disponendo né del parere del comitato, né dei testi precedenti alla versione definitiva dello schema di decreto non è possibile farsi una propria opinione. Insomma, una procedura caratterizzata da assoluta opacità.
10) Il Sottosegretario all’Editoria segue questo iter normativo? Dalle dichiarazioni che rilascia alla stampa evinco che segue con attenzione il percorso del decreto legislativo.
VI) AISA 11) L’associazione italiana Scienza aperta, di cui le è presidente, è stata ascoltata in Parlamento: quali elementi avete portato all’attenzione dei parlamentari e quale riscontro reale avete ottenuto?
L’AISA, allineandosi ad altri portatori di interessi come Wikimedia e Creative Commons, ha suggerito un’attuazione della direttiva che conduca a un rafforzamento del sistema delle eccezioni e limitazioni a diritto d’autore e diritti connessi. Tale indicazione si salda peraltro con una precedente proposta della medesima associazione volta a introdurre nella legge sul diritto d’autore italiana un diritto di ripubblicazione irrinunciabile e indisponibile in capo all’autore scientifico sulle proprie opere. Un vero diritto dell’autore e non dell’editore. Il diritto sarebbe strumentale all’attuazione dell’Open Access alle pubblicazioni scientifiche. In altre parole, se l’autore ha pubblicato con la classica formula dell’editoria ad accesso chiuso a pagamento per il lettore, può ripubblicare in accesso aperto – accesso gratuito e con diritti di riuso – senza dover chiedere l’autorizzazione all’editore. La proposta dell’AISA era stata parzialmente accolta nella proposta di legge dell’On. Gallo sull’accesso aperto, ma poi l’iter legislativo si è arrestato nel novembre 2019 per la pressione degli editori italiani. Insomma, l’AISA cerca di far presente al legislatore che il diritto d’autore non è solo una questione di mercato, ma un tema che attiene alla democrazia. Le leggi sul diritto d’autore degli ultimi decenni sono state scritte alimentando la concentrazione di potere e restringendo gli spazi di libero accesso e condivisione della conoscenza. Ciò determina un grave rischio per la democrazia. Uno dei tanti di quest’epoca sventurata.
Pandemia e piattaforme per la didattica a distanza
Durante la pandemia il tema del ruolo delle Big Tech nella didattica a distanza è stato sollevato più volte. Molte università italiane hanno fatto ricorso a strumenti di videoconferenza come Microsoft Teams, Google Meet e Zoom. L’uso di questi strumenti per finalità didattiche ha acceso i riflettori sui rischi di trattamento illecito dei dati personali nell’ambito delle piattaforme che fanno capo alla galassia GAFAM delle Big Tech americane.
In particolare, i nodi sono venuti al pettine quando la Corte di Giustizia con la sentenza 16 luglio 2020 C-311/18 (Schrems II) ha invalidato la decisione di esecuzione (UE) 2016/1250 sullo scudo UE-USA per la privacy, determinando in via generale l’illeceità del trasferimento dei dati personali dall’Unione Europea agli Stati Uniti.
Il problema si pone per l’università come per la scuola.
La dipendenza dalle piattaforme americane appare ancor più sorprendente alla luce del fatto che esistono soluzioni basate su software open source che possono essere gestite in autonomia dalle istituzioni formative. Due esempi: la rete nazionale a banda ultralarga dedicata alla comunità dell’istruzione e della ricerca ideata e gestita dal Consortium GARR, un’associazione senza fini di lucro fondata sotto l’egida del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ha messo a disposizione di scuola e università un ventaglio di strumenti per i servizi di videoconferenza e il Politecnico di Torino ha fatto leva sul software a codice aperto Big Blue Button per erogare didattica a distanza.
Nonostante studi (vedi qui e qui), articoli (vedi qui, qui, qui e qui) e prese di posizione pubblica (vedi qui e qui) abbiano sollecitato i decisori politici a una soluzione alternativa all’uso delle piattaforme dei giganti americani, la situazione di dominio di queste ultime appare, dopo un anno e mezzo di pandemia, immutata.
Guardiamo rapidamente ad alcuni fatti che hanno contribuito a mantenere lo status quo.
a) La reazione del Garante per la protezione dei dati personali è stata finora estremamente timida (per non dire: timorosa). Si vedano da ultimo gli accenni rinvenibili nella relazione annuale.
b) L’inerzia del Governo e in particolare del Ministero dell’Università e della Ricerca.
c) Le grandi piattaforme commerciali hanno già da tempo preso il controllo di alcune infrastrutture fondamentali delle università italiane, a cominciare dalla posta elettronica. Insomma, il terreno era stato diffusamente arato e reso fertile. Le istituzioni universitarie locali e centrali non solo non hanno fatto niente per contrastare il fenomeno, ma lo hanno (più o meno) consapevolmente alimentato.
Dalla posta elettronica all’editoria: una dinamica ripetitiva
L’esempio della posta elettronica è paradigmatico. Basti pensare a Google. Scegliere per un’università di dismettere il proprio servizio di email per far leva su Gmail, significa consentire al titano di Mountain View di penetrare nelle proprie infrastrutture con un cavallo di Troia dove alberga un pacchetto dei servizi complementari come Calendar, Drive, Docs e appunto Meet.
Consegnarsi mani e piedi a grandi piattaforme commerciali oligopolistiche non innesca solo una classica situazione di dipendenza tecnologica ed economica, ma pone altresì un problema di protezione dei dati personali che si riflette sull’autonomia dell’università e delle sue componenti (docenti, studenti e personale amministrativo).
Il problema non è rappresentato solo dalla certezza di finire sotto lo sguardo invasivo della National Security Agency o di qualche altra agenzia di spionaggio statunitense, ma anche dall’influenza che le piattaforme commerciali sono in grado di esercitare sull’evoluzione dell’università.
La dinamica che ha caratterizzato da ultimo il ricorso alle grandi piattaforme commerciali replica, infatti, quanto già avviene da anni nel campo dell’editoria e delle banche dati scientifiche.
L’editoria scientifica è sempre più concentrata nelle mani di poche entità commerciali, le quali dei tradizionali editori non hanno più niente. Queste entità si sono trasformate in imprese di analisi dei dati, spesso nel controllo di fondi speculativi di investimento, che traggono la loro forza dal delirio valutativo-bibliometrico che impera nella ricerca scientifica e nell’accademia. Com’è stato sottolineato di recente, tali imprese nel concedere alle università il solo accesso (e non la proprietà) ai contenuti delle proprie banche dati hanno soppiantato le biblioteche, ridotte alla funzione subalterna di mere dispensatrici di accesso temporaneo a un sapere posseduto e ordinato altrove secondo logiche e algoritmi opachi.
Le banche dati si trovano nei cloud controllati dalle imprese di information analytics le quali sorvegliano e profilano il comportamento dei fruitori (in primo luogo, docenti e ricercatori), al fine di prevedere e, soprattutto, di orientare la ricerca del futuro.
Non a caso chi ha studiato attentamente il fenomeno ha messo in evidenza che le piattaforme commerciali come Microsoft puntano a colonizzare tutti i servizi relativi alle diverse fasi che portano dalla ricerca alla pubblicazione e divulgazione di risultati dello studio.
Standard chiusi, proprietà intellettuale e misure tecnologiche facilitano la concentrazione di potere, riducendo la concorrenza, frammentano artificiosamente i mercati e catturano in una morsa duratura (c.d. lock-in) i fruitori dei servizi.
Le mani delle piattaforme sulla didattica
Le grandi piattaforme della galassia GAFAM ripropongono per la didattica universitaria il modello commerciale sperimentato con successo nella colonizzazione di altre infrastrutture digitali strategiche come la posta elettronica e le banche dati scientifiche.
L’impatto culturale di questa dinamica sarà ancora più profondo di quello che ha determinato il mutamento della natura della ricerca.
La gran parte degli studenti universitari ignora la realtà qui descritta o ne coglie solo una piccola porzione. Il che è facilmente spiegabile con il fatto che scuola e università non insegnano a guardare criticamente all’evoluzione delle tecnologie digitali e di Internet.
In un mondo accademico sempre più apatico e narcotizzato, dove i professori si percepiscono per lo più come travet o come “entrepreneurial scientist”, gli spazi di uso pubblico della ragione e, quindi, di libertà e autonomia si riducono drammaticamente.
Si tratta di un circolo vizioso. Gli studenti ignorano perché i docenti non insegnano a guardare criticamente alla dimensione digitale dove si esplica e si esplicherà, anche quando la pandemia da Covid-19 sarà finita, una parte importante della didattica.
Conclusioni
Per evitare la definitiva affermazione della c.d. università delle piattaforme occorre mettere mano a diverse contromisure, note a chi conosce la materia.
a) Occorre collocare al centro dell’insegnamento scolastico e universitario l’analisi critica del controllo delle infrastrutture di comunicazione del sapere.
b) Aggredire a monte il potere di monopoli e oligopoli. Il che si traduce innanzitutto in interventi normativi sull’interoperabilità, sulla proprietà intellettuale e sulla valutazione della ricerca e della didattica nonché in applicazioni tempestive e incisive della normativa sulla protezione dei dati personali.
L’agenda politica è scritta da tempo e riguarda un pezzo fondamentale della democrazia: la scuola e l’università. Manca la volontà, a livello europeo e italiano, per attuarla.
15 luglio Luglio 2021 (pubblicato sull’Alto Adige 18 luglio 2021, ripubblicato su L’Adige 20 luglio 2021). Più di 120 accademici, esperti nella materia della proprietà intellettuale, dichiarano pubblicamente di essere a favore della proposta di India e Sudafrica di sospensione dell’accordo TRIPS al fine di contrastare la pandemia da COVID-19
Nell’ottobre del 2020 India e Sudafrica hanno chiesto davanti all’Organizzazione Mondiale del Commercio o World Trade Organization (WTO) la sospensione temporanea (waiver) dell’accordo Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS), cioè dell’accordo internazionale sulla protezione dei diritti di proprietà intellettuale (brevetti per invenzione, marchi, copyright, segreti commerciali) su farmaci (compresi i vaccini) e dispositivi medici anti-COVID-19. La richiesta è sostenuta da più di 100 paesi, ma ha finora incontrato l’opposizione delle grandi nazioni industrializzate dove hanno sede le multinazionali della produzione farmaceutica (c.d. Big Pharma).
L’obiettivo della sospensione è la rapida condivisione su scala globale di conoscenze e tecnologie necessarie alla lotta contro la pandemia.
A maggio del 2021 sembrava che il fronte contrario alla sospensione potesse sfaldarsi. L’amministrazione Biden aveva ventilato la possibilità di appoggiare l’istanza di India e Sudafrica (si noti, per inciso, che l’oggetto della dichiarazione americana riguarda solo i vaccini, mentre la richiesta di India e Sudafrica concerne tutti i diritti di proprietà intellettuale su farmaci e dispositivi medici).
Mentre le varianti del virus dilagano e la campagna vaccinale globale dimostra tutte le sue falle dentro e fuori le nazioni più ricche, lo stucchevole balletto geopolitico dei grandi paesi appare sempre più come un inaccettabile, macabro spettacolo di un potere avido e miope.
Il documento muove dalla consapevolezza che il problema dell’iniqua distribuzione della capacità di produrre e fornire le tecnologie di tutela della salute è innescato da molteplici fattori: le restrizioni derivanti dai diritti di proprietà intellettuale sono solo uno di essi. Ad esempio, incidono negativamente anche le restrizioni al commercio internazionale e i blocchi all’esportazione. Tuttavia, le barriere alla condivisione della conoscenza erette dai diritti di proprietà intellettuale giocano un ruolo fondamentale nell’attuale scenario.
Preso atto dell’indisponibilità da parte delle case farmaceutiche a condividere diritti di proprietà intellettuale, dati e know-how, la sospensione dell’accordo TRIPS diviene una misura urgente ed essenziale. Lo è ancor più alla luce della limitata efficacia di altri meccanismi come le licenze obbligatorie dei diritti di proprietà intellettuale.
Com’è stato rilevato da Joseph Stiglitz in un’intervista ad Avvenire di qualche giorno fa, la sospensione dell’accordo TRIPS doveva scattare già a ottobre 2020. Si sarebbe guadagnato tempo prezioso. Il tempo perso lo si è pagato con la vita di molte persone.
Nella decisione VG Bild-Kunst la Corte di Giustizia dell’Unione Europea stabilisce che l’art. 3, par. 1, della dir. 2001/29/Ce sul diritto d’autore nella società dell’informazione che regola il diritto di comunicazione al pubblico deve essere interpretato nel senso che costituisce una comunicazione al pubblico ai sensi di tale disposizione il fatto di incorporare, mediante la tecnica del framing, in una pagina Internet di un terzo, opere protette dal diritto d’autore e messe a disposizione del pubblico in libero accesso con l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore su un altro sito Internet, qualora tale incorporazione eluda misure di protezione contro il framing adottate o imposte da tale titolare. La decisione costituisce una pericolosa estensione del diritto di comunicazione al pubblico e della nozione di misure tecnologiche di protezione prevista dall’art. 6 della dir. 2001/29/Ue che rischia di avere un impatto negativo sul Web nonché sulla libertà di pensiero e informazione.
“Mentre la società civile e una cerchia sempre più allargata di intellettuali chiedono un ripensamento complessivo della proprietà intellettuale, i policy maker guardano solo ad alcuni interessi: quelli più forti e meglio organizzati. Ma senza la messa in comune della conoscenza non arriveremo preparati alla prossima crisi”.
Il libro è stato presentato in un seminario organizzato dall’AIAP (Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva) il 16 giugno 2021: video disponibile qui.
Il mondo dopo la pandemia sarà migliore? A giudicare da come le potenze occidentali si stanno muovendo sulla vicenda dei brevetti e dei segreti commerciali sui vaccini, la risposta è decisamente: no. Insomma, la proprietà intellettuale costituisce un banco di prova, uno dei tanti, di quel che ci aspetta nel prossimo futuro. E, appunto, non c’è da essere ottimisti.
Riassumendo: per mesi si sono susseguiti appelli della società civile volti ad allentare le maglie dei diritti di esclusiva sulla tecnologia necessaria per prevenire e curare il COVID-19 su scala globale. La richiesta si è fatta via via più pressante per i vaccini. Le ripetute dichiarazioni del Papa sul vaccino come bene comune, le petizioni di autorevoli scienziati e capi di governo, le prese di posizione di molte associazioni come Medici Senza Frontiere, Oxfam ed Emergency, l’iniziativa “Nessun profitto sulla pandemia” hanno chiesto una limitazione della proprietà intellettuale. Nessuna delle iniziative ha finora prodotto esiti concreti. Dopo qualche (immotivato) entusiasmo suscitato dalle parole pronunciate a inizio maggio da una rappresentante dell’amministrazione americana che aprivano spazi di discussione in seno all’Organizzazione Mondiale sul Commercio, i successivi appuntamenti internazionali hanno rimesso l’Occidente in riga, riposizionandolo sulla difesa a oltranza dei diritti di proprietà intellettuale. Risultato: i paesi poveri e in via di sviluppo rimarranno fuori dalla copertura vaccinale ancora a lungo. Non è solo ingiusto nei confronti di miliardi di persone, è anche rischioso per l’Occidente. Come molti hanno rilevato, finché il virus circolerà e muterà nessuno può dirsi fuori dalla pandemia.
Eppure, alcuni politici come Boris Johnson e commentatori – anche in Italia – continuano a sostenere che la produzione dei vaccini sia un innegabile e rapido successo della ricerca privata mossa dal profitto e dall’avidità.
Questa narrazione distorce la realtà attuale e dimentica la storia, anche quella recente.
Sul piano della contemporaneità trascura il fatto che il governo degli Stati Uniti – implicito o esplicito modello di riferimento per chi celebra le virtù salvifiche del mercato – ha usato poteri e risorse economiche per guidare la produzione e la distribuzione dei vaccini. Ha finanziato la ricerca di base, detiene brevetti chiave della tecnologia mRNA, ha riversato fiumi di denaro sulle case farmaceutiche (in particolare, su Moderna), ha numerosi strumenti giuridici per fare pressione sulle case farmaceutiche.
Sul piano storico è immemore del fatto che le grandi campagne vaccinali che hanno sconfitto o drasticamente ridotto l’incidenza di malattie come il vaiolo e la poliomielite sono il frutto di sforzi collettivi volti a coordinare settore pubblico e settore privato. Non solo. Sono il frutto dell’etica della scienza aperta, cioè della scienza pubblica e democratica mossa dal solo desiderio di far progredire la conoscenza. Nella campagna vaccinale contro la poliomielite sono rimaste celebri le dichiarazioni di Salk e Sabin contro i brevetti.
La pandemia doveva essere un’occasione per ripensare la distribuzione dei ruoli del settore pubblico e di quello privato nonché per ridisegnare le politiche della proprietà intellettuale. Invece ha messo tragicamente in evidenza che le geopolitica si fa anche con i vaccini e che il nostro orizzonte valoriale si restringe sempre di più.
Un bel paradosso se si pensa che la nostra capacità di reagire al COVID-19 dipende innanzitutto da una prassi riconducibile all’etica della scienza aperta: la condivisione delle sequenze genetiche del virus e delle sue varianti. Una condivisione iniziata a gennaio del 2020 quando un gruppo di ricercatori cinesi depositò su Internet in accesso aperto la sequenza del SARS-Cov-2.
La pandemia ha messo drammaticamente in evidenza che il mondo ha bisogno di cooperare condividendo dati, informazioni, conoscenza.
Le misure di distanziamento sociale hanno accresciuto il ruolo di Internet come strumento per lo svolgimento di attività essenziali come la ricerca scientifica, l’insegnamento nella scuola e nelle università nonché la fruizione del patrimonio culturale.
La scienza aperta si basa sull’idea che la conoscenza si costruisce pubblicamente, in modo democratico e cooperativo. L’Open Access e l’Open Science (OS) non sono mossi dal profitto né dall’ambizione di scalare classifiche che contano le citazioni dei testi scientifici, ma dall’intenzione di far progredire la conoscenza. Nell’epoca della stampa erano libri e riviste che facevano viaggiare le idee. Oggi le idee viaggiano su Internet. Perciò, il diritto umano alla scienza assume la connotazione di diritto umano alla scienza aperta e si relaziona al diritto alla salute e alla vita.
Le leggi sui diritti di proprietà intellettuale (DPI) sono pensate, all’opposto, non per cooperare ma per competere al fine di generare profitto. Rispondono alla logica del “vincitore prende tutto” – the winner takes all – e… decide. Il primo che conquista il diritto di esclusiva (monopolio) decide se e a chi concedere l’uso del bene immateriale protetto (l’invenzione industriale o l’opera dell’ingegno). Brevetti per invenzione, diritti d’autore e segreti commerciali costituiscono barriere che impediscono accesso e condivisione della conoscenza.
La proprietà intellettuale è una categoria occidentale, parte integrante del sistema capitalistico, che è stata imposta dall’Occidente al mondo tramite trattati internazionali e altri mezzi di pressione. Sebbene i DPI possano spettare allo Stato, sono pensati, nei sistemi capitalistici, per essere attribuiti o per essere ceduti dal settore pubblico alle imprese. Oggi anche grandi paesi non occidentali, come la Cina, sono diventati entusiasti sostenitori dei diritti di esclusiva sui beni immateriali. Tali diritti di esclusiva sono stati progressivamente rafforzati tanto da avvicinarsi al controllo dei mattoni fondamentali della conoscenza: i dati e le informazioni. Per tornare alle sequenze genetiche, occorre ricordare che nel 2013 la Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Myriad decise di negare la brevettabilità delle sequenze genetiche. Ma in quello stesso paese recenti iniziative legislative hanno tentato di sovvertire il principio stabilito dalla corte. Inoltre, accanto alla proprietà intellettuale in senso stretto vi sono altre forme di controllo esclusivo basate sui contratti e sulla tecnologia. In ambito farmaceutico poi esiste un altro strumento giuridico di controllo privato: si tratta della data exclusivity o market exclusivity sui test clinici che proibisce al produttore di farmaci generici di usare, per un determinato periodo di tempo, i dati dei trials del produttore del farmaco brevettato.
Questo scritto intende affrontare criticamente il tema della proprietà intellettuale in campo biomedico e sanitario, con particolare riferimento alla questione dell’equa e rapida distribuzione su scala globale dei vaccini anti-COVID-19. La tesi di fondo non è nuova: la scienza aperta è inconciliabile con politiche di estensione e rafforzamento della proprietà intellettuale. Pur non essendo nuova, la tesi merita un approfondimento in relazione al dibattito pubblico in corso e alle scelte politiche nazionali e internazionali. La pandemia ha ampliato in modo esponenziale la portata di tale dibattito prima confinato in circoli accademici.
Innanzitutto vanno passati in rassegna e confutati gli argomenti a favore dei brevetti sui vaccini.
Inoltre, per comprendere le implicazioni del tema, occorre distinguere le politiche della proprietà intellettuale “a monte” da quelle “a valle”.
Sebbene molta parte del dibattito sia in questo momento focalizzata sulle politiche a valle, non c’è dubbio che le maggiori debolezze del sistema attengono a scelte riguardanti le politiche a monte. Tali debolezze a monte rendono limitatamente efficaci o ineluttabilmente tardivi interventi a valle (ad es. l’imposizione di licenze obbligatorie sui brevetti). Inutile sottolineare che si ti tratta di debolezze e ritardi che il mondo sta pagando a carissimo prezzo.
In questo tornante della storia, anche se è necessario ed urgente mettere in atto alcune politiche a valle, occorre altresì non perdere l’occasione per ripensare le politiche a monte. Solo ridisegnando le politiche a monte si può sperare di giungere preparati ad altri eventi catastrofici come l’attuale pandemia.
Si prenderà le mosse dalla confutazione degli argomenti a favore di brevetti privati sui vaccini (paragrafo 2), per poi offrire una sintesi del dibattito sulle politiche a valle (paragrafo 3), discutere alcune politiche a monte (paragrafo 4) e infine svolgere alcune conclusioni (paragrafo 5).
2. Argomenti a favore dei brevetti sui vaccini e confutazioni
2.1 Argomento degli incentivi
L’argomento più diffuso e ripetuto a favore dei brevetti sui vaccini è quello degli incentivi. L’invenzione è un’informazione, bene non escludibile e non rivale il cui mercato in regime di concorrenza perfetta è destinato a fallire. I brevetti sono monopoli legali istituiti dallo Stato per consentire all’inventore di praticare prezzi monopolistici. La possibilità di praticare prezzi monopolistici costituisce un incentivo fondamentale. Limitare i brevetti ex post (ad es. con licenze obbligatorie) e a maggior ragione ex ante (ad es. escludendo i vaccini dalla brevettabilità) si tradurrebbe in una drastica diminuzione o azzeramento degli incentivi delle imprese a investire in ricerca futura (ad es. su nuovi vaccini che si rendano necessari per contrastare le varianti del virus). L’argomento si rifà a una delle teorie economiche a favore del brevetto. Solitamente è accompagnato dalla classica retorica anti-statalista che vede l’incentivo del profitto (o l’avidità) come unico motore dell’innovazione. Spesso si sposa anche con una narrativa che predica la rapidità con cui sono stati elaborati i vaccini anti-COVID-19. Nel racconto dei suoi sostenitori, sembrerebbe che l’elaborazione dei vaccini sia un successo innegabile e insperato raggiunto in pochi mesi soprattutto grazie alla ricerca privata. Inoltre, sembrerebbe che proporre un ruolo di maggiore importanza dello Stato nell’elaborazione e nella produzione dei vaccini costituirebbe una sorta di salto nel buio, una pericolosa rivoluzione rispetto a un modello consolidato di innovazione. Infine, l’argomento si muove nell’astrazione metafisica di un libero mercato concorrenziale globale.
Pubblico e privato. L’argomento sovrastima l’importanza delle imprese e l’incentivo del profitto. L’esempio americano è paradigmatico con riferimento proprio ai vaccini maggiormente innovativi, cioè quelli a mRNA. Il governo degli Stati Uniti ha finanziato la ricerca di base, ha la titolarità, tramite i National Institutes of Health (NIH), di diversi brevetti che costituiscono alcune delle maglie di un’intricata rete di diritti di esclusiva, dispone di meccanismi giuridici per rientrare nel controllo della proprietà intellettuale e ha contribuito finanziariamente alla ricerca sulla produzione dei vaccini (almeno nel caso del vaccino Moderna il finanziamento pubblico sembra nettamente prevalente).
Guadagni e innovazione. L’argomento sostiene che gli extraprofitti monopolistici si traducono automaticamente in investimenti nell’innovazione, mentre è provato che l’industria farmaceutica investe gran parte dei propri guadagni in altre attività che niente hanno a che vedere con l’innovazione (queste attività includono il lobbying presso i decisori pubblici al fine di ottenere leggi e provvedimenti favorevoli ai loro interessi).
Concorrenza e monopolio. L’argomento a favore dei brevetti viene generalmente presentato come pro-concorrenziale, mentre per definizione il brevetto conferisce una posizione monopolistica. La proprietà intellettuale è un monopolio, dunque rappresenta intrinsecamente un second best (nell’universo concettuale del libero mercato la condizione ideale è la concorrenza). Per questo i DPI sono limitati in durata e in ampiezza. Inoltre, nel mercato farmaceutico se ne avvantaggiano generalmente imprese che detengono una posizione di forza sul mercato (c.d. Big Pharma) e che spesso non hanno effettuato direttamente investimenti in innovazione (si giovano cioè di investimenti di altre imprese più piccole, ad es. start up). Insomma, almeno parte dei guadagni non va a chi ha investito in innovazione.
Brevetti e pensiero liberale. L’argomento è ancora più debole quando proviene da voci che si vorrebbero ascrivere al pensiero liberale, poiché quest’ultimo vanta una tradizione risalente e recente marcatamente ostile alla proprietà intellettuale.
Il brevetto come sistema perfetto. L’argomento descrive il sistema brevettuale come un sistema perfetto che premia i veri innovatori (individui o gruppi di individui la cui creatività sarebbe alimentata dal profitto). Mentre è noto che il sistema brevettuale non premia necessariamente i veri innovatori, ma quelli più rapidi nel deposito della domanda di brevetto (sistema del first to file), che il filtro degli uffici brevettuali spesso non funziona e vengono concessi brevetti a invenzioni che non meritano protezione, che gli uffici brevetti e il sistema di controllo giurisdizionale costano molto, che altri costi sono generati dall’incertezza del diritto (quali sono gli esatti confini del bene immateriale?), che i brevetti sono spesso non attuati e usati come potenti armi (ricattatorie) anticoncorrenziali (ad es. patent troll), che il sovraffollamento di DPI sempre più forti e frammentati costituisce un freno e non uno stimolo all’innovazione.
Il rapido e innegabile successo dei vaccini anti-COVID-19. L’argomento, come si è detto, descrive l’attuale produzione vaccinale come un successo. Mentre è evidente che l’attuale sistema, se osservato a livello globale non funziona. Come ripetuto infinite volte, o si vaccina il mondo rapidamente o non si esce dalla pandemia. D’altra parte, se si guarda oltre il COVID-19 si scopre che molte malattie che avrebbero richiesto investimenti nello sviluppo dei vaccini rimangono fuori dal raggio di azione degli incentivi mossi dal profitto. Malattie rare o diffuse in paesi in via di sviluppo sono fuori dal raggio di interesse mosso dal profitto.
2.2 Argomento dell’inutilità
Un secondo argomento a favore dei brevetti sui vaccini attiene all’inutilità di una loro limitazione (licenza obbligatoria), in quanto per produrre non è sufficiente accedere alla descrizione brevettuale, occorre accedere a segreti e know how. Com’è stato rilevato – da Ugo Pagano qui e Andrea Roventini qui – l’argomento si contraddice con quello degli incentivi. Se la limitazione del brevetto non serve a garantire indipendenza di produzione, allora giocoforza non intacca gli incentivi.
La verità è che la semplice limitazione del brevetto (la licenza obbligatoria) non garantisce di per sé l’autonomia produttiva, ma semplicemente la agevola. In altri termini, è condizione necessaria ma non sufficiente. Ciò significa, nell’ottica delle politiche a valle, che non bastano licenze obbligatorie dei brevetti, ma servono anche licenze obbligatorie sui segreti commerciali. Più aumenta il potere di intervenire sulle imprese, più la capacità decisionale e persuasiva dello Stato si accresce. Ovviamente, le licenze obbligatorie sui segreti commerciali, quando esercitate, non garantiscono allo Stato di riprendere il controllo totale della tecnologia, in quanto per entrare in possesso del segreto serve la collaborazione delle persone che lavorano nell’impresa. Tuttavia, rappresentano rilevanti mezzi di pressione.
2.3 Argomento geopolitico
L’argomento geopolitico sostiene che la limitazione dei brevetti e soprattutto il trasferimento di tecnologia avvantaggerebbe non tanto i paesi in via di sviluppo ma giganti come la Cina e l’India che hanno capacità produttiva, ma non hanno la tecnologia occidentale, soprattutto quella americana. In questo modo gli Stati Uniti perderebbero l’ultimo vantaggio tecnologico che rimane loro (quello delle biotecnologie), in quanto su altri fronti, come l’intelligenza artificiale, sarebbero già in affanno. L’argomento ha il pregio di essere schietto. Dà per scontato che non esiste un mercato globale in cui tutti possono partecipare ad armi pari alla competizione in cui vince il migliore e prende tutto. Piuttosto ci si muove in un contesto geopolitico in cui monopoli, barriere all’esportazione e altri mezzi di intervento degli Stati contano. Si tratta dunque di un argomento intrinsecamente anticoncorrenziale e marcatamente anticooperativo. Per ragioni geopolitiche è bene che l’Occidente difenda i suoi monopoli.
La debolezza di questo argomento è nella sua miopia. Per conservare un vantaggio tecnologico si rischia di prolungare all’infinito la pandemia con quel che ne deriva, anche per l’Occidente, in termini di vite umane e perdite economiche.
3. Politiche a valle
In questi mesi il dibattito politico e mediatico ha in gran parte riguardato iniziative come le licenze obbligatorie dei brevetti su farmaci e vaccini, la sospensione dei TRIPS per tutti i mezzi di prevenzione, contenimento e trattamento contro il COVID-19, e iniziative per condividere la tecnologia (anche il know how oggetto del segreto commerciale) alla base dei rimedi.
I margini di operatività di questo tipo di iniziative sono definiti a livello internazionale e nazionale. A livello internazionale rivestono importanza fondamentale i TRIPS del WTO.
Il WTO è la sola organizzazione globale riguardante le regole del commercio tra nazioni. Si basa su accordi (trattati) internazionali. Aderiscono al WTO 164 nazioni, tra le quali i paesi industrializzati. Il suo scopo è favorire il commercio internazionale. Essa non è parte delle Nazioni Unite. Se una nazione membro del WTO viola un trattato, un’altra nazione membro può rivolgersi al WTO che, attraverso un organo del General Council deputato a risolvere le controversie (il Dispute Settlement Body), può irrogare sanzioni. Tuttavia, il WTO non ha il potere di eseguire le sanzioni nello Stato membro. L’applicazione delle sanzioni è affidata agli stessi Stati membri e si basa su misure compensative o sanzioni commerciali (ad es. l’imposizione di dazi).
I TRIPS sono entrati in vigore nel 1995. I TRIPS obbligano gli Stati membri a implementare leggi di tutela dei DPI. In particolare, prevedono alcuni standard minimi di tutela di DPI come i diritti d’autore e connessi, i marchi, le indicazioni geografiche, i disegni industriali, i brevetti per invenzione, i segreti commerciali.
3.1 Licenze obbligatorie
I TRIPS prevedono limiti ai DPI. Tra i meccanismi di limitazione del potere di esclusiva dei DPI vi sono le licenze obbligatorie dei brevetti per invenzione (l’art. 31 TRIPS non parla letteralmente di licenze obbligatorie ma di Other Use Without Authorization of the Right Holder).
I brevetti per invenzione sono diritti di esclusiva territoriali, ovvero riguardano il territorio su cui lo Stato che li ha concessi esercita la sovranità. L’esclusiva riguarda una serie di attività: produrre il bene (nel caso dell’invenzione di prodotto), applicare il procedimento (nel caso dell’invenzione di procedimento), usare, mettere in commercio, vendere o importare. I brevetti vengono concessi sul riscontro da parte di un ufficio statale (ufficio brevetti) di una serie di requisiti: novità, attività inventiva, applicabilità industriale, sufficiente descrizione dell’invenzione.
Il brevetto dura vent’anni dalla data di deposito della domanda, con l’eccezione delle invenzioni farmaceutiche che possono godere di un’estensione temporale fino a ulteriori cinque anni (certificato di protezione complementare).
Il brevetto viene spesso presentato come un’opportuna alternativa – in quanto tale, meritevole di essere fortemente incentivata – al segreto commerciale. Il requisito della sufficiente descrizione serve a garantire che la domanda di brevetto, una volta pubblicata, possa trasmettere al pubblico i contenuti dell’invenzione. Ma la domanda non viene pubblicata immediatamente, bensì dopo la scadenza di un termine (generalmente 18 mesi dopo la sua presentazione all’ufficio brevetti). 18 mesi durante una pandemia come quella attuale sono un’eternità. Inoltre, le tecnologie alla base dei vaccini sono complesse non riguardano un singolo brevetto, ma reti di brevetti collegati l’uno con l’altro che possono essere nella titolarità di diversi soggetti contemporaneamente. Di più, le imprese farmaceutiche usano segreti commerciali e brevetti in modo complementare e non alternativo.
Normalmente la licenza è concessa volontariamente dal titolare del brevetto. La licenza obbligatoria è uno strumento giuridico in mano allo Stato che ha concesso il brevetto per riprendere il controllo decisionale sull’uso dell’invenzione. Con la licenza obbligatoria l’elemento della volontarietà, cioè del consenso del titolare, viene meno: lo Stato obbliga il titolare a concedere la licenza per alcune finalità predeterminate dalla legge. Ad esempio, lo Stato X impone all’impresa Y, titolare del brevetto A, di concedere la licenza all’impresa Z. La licenza obbligatoria non è un esproprio, perché lascia integra la titolarità del diritto di esclusiva, e prevede il pagamento di un equo compenso. Tra le tipologie di licenze obbligatorie figura quella per tutela della salute pubblica.
L’art. 31 dell’accordo TRIPS prevede l’ipotesi della licenza obbligatoria (Other Use Without Authorization of the Right Holder). La norma obbliga gli Stati membri del WTO a disciplinare normativamente l’imposizione della licenza obbligatoria subordinandola a una serie di requisiti molto stringenti, tra i quali vi sono i seguenti:
a) l’autorizzazione all’uso è concessa sulla base di casi specifici (cioè caso per caso e non via generale);
b) l’utente dell’invenzione che intende godere della licenza obbligatoria (nell’esempio: l’impresa Z) deve aver effettuato sforzi – essersi impegnato – per ottenere dal titolare del brevetto una licenza volontaria in base a termini e condizioni ragionevoli e tali sforzi devono essere risultati infruttuosi in un ragionevole periodo di tempo (da questo requisito si può prescindere in casi di emergenza nazionale o in altri casi di estrema urgenza);
c) lo scopo e la durata dell’uso oggetto della licenza devono essere limitati;
d) l’uso deve essere non esclusivo;
e) l’uso non è soggetto ad assegnazione a terzi;
f) l’uso deve riguardare prevalentemente il territorio dello Stato che ha imposto la licenza obbligatoria (in altre parole, il bene prodotto sulla base della licenza obbligatoria non può essere esportato verso altri paesi).
Nel 2001, a seguito delle istanze che venivano dai paesi che avevano difficoltà ad accedere ai farmaci coperti da diritti di esclusiva, la Dichiarazione di Doha ha affrontato il tema del conflitto tra la tutela dei DPI contenuta nei TRIPS e la tutela della salute, in particolare per quanto riguarda la cura di malattie come l’HIV, la malaria e la tubercolosi (la battaglia di Nelson Mandela contro Big Pharma costituisce uno dei capitoli più importanti di questa storia). A proposito delle licenze obbligatorie la Dichiarazione di Doha stabilisce che ciascun paese membro del WTO ha la libertà di concedere licenze obbligatorie e di determinare i presupposti per la concessione. Inoltre, stabilisce che ogni paese membro ha il diritto di determinare le ipotesi che costituiscono emergenza nazionale o altre circostanze di estrema urgenza, specificando che tra queste ipotesi rientrano le epidemie.
Nel 2005 i TRIPS sono stati modificati al fine di inserire l’art. 31-bis. Il requisito dell’uso prevalentemente territoriale della licenza non si applica, in base all’art. 31-bis, alla produzione e alla esportazione di prodotti farmaceutici verso i paesi meno sviluppati o i paesi che per emergenze nazionali o altre condizioni di estrema urgenza abbiano notificato al WTO l’intenzione di avvalersi dell’art. 31-bis.
Per dare attuazione all’art. 31-bis, l’Unione Europea ha emanato il Regolamento (CE) n. 816/2006 concernente la concessione di licenze obbligatorie per brevetti relativi alla fabbricazione di prodotti farmaceutici destinati all’esportazione verso paesi con problemi di salute pubblica.
A differenza di altri paesi – vedi qui e qui – l’Italia non ha una disposizione normativa che disciplini la concessione di licenze obbligatorie dei brevetti per motivi di salute pubblica. Il dato è di per sé sconcertante, anche considerando che recenti tentativi di inserire disposizioni di questo genere non sono andati a buon fine. Lo è ancora di più in tempi di pandemia durante i quali altri grandi paesi si sono affrettati a rafforzare i potere statali di limitazione dei brevetti (si pensi al Canada). Inoltre, alcuni paesi hanno fatto ricorso alle licenze obbligatorie o hanno minacciato di farvi ricorso. La semplice minaccia, infatti, costituisce già uno strumento di pressione verso i detentori privati della tecnologia. L’Italia, peraltro, ha una norma generale – l’art. 141 del codice della proprietà industriale – sull’espropriazione dei diritti di proprietà industriale, che alcuni commentatori ritengono incompatibile con i TRIPS. Va però precisato che il comma 2 stabilisce che:
L’espropriazione può essere limitata al diritto di uso per i bisogni dello Stato, fatte salve le previsioni in materia di licenze obbligatorie in quanto compatibili.
Di là dalle questioni nominalistiche, un provvedimento di esproprio opportunamente congegnato potrebbe forse funzionare come una licenza obbligatoria. Rimane comunque il fatto che sarebbe opportuno inserire una disposizione sulla licenza obbligatoria per tutela della salute pubblica.
3.2 La sospensione dell’accordo TRIPs
Il 2 ottobre del 2020 India e Sud Africa hanno avviato presso il WTO la procedura per chiedere una sospensione di alcune parti dell’accordo TRIPS. Più precisamente hanno chiesto che il Consiglio dei TRIPS raccomandi, il più presto possibile, al Consiglio Generale del WTO la sospensione (waiver) dell’attuazione, applicazione e tutela delle Sezioni 1 (copyright and related rights; diritti d’autore e connessi), 4 (industrial designs; disegni industriali), 5 (patents; brevetti per invenzione) e 7 (protection of undisclosed information; segreti commerciali) della Parte II dell’accordo TRIPS in relazione alla prevenzione, contenimento e trattamento terapeutico del COVID-19.
Occorre notare con attenzione due aspetti della richiesta di sospensione.
a) La sospensione dell’accordo TRIPS si traduce soltanto nel congelamento del sistema di tutela basato sul WTO (v., ad es., Contreras qui; Sganga qui). Senza sospensione, un’azione di limitazione dei DPI a livello nazionale potrebbe innescare un ricorso di uno Stato membro davanti al WTO e, nel caso di accoglimento per illegittima limitazione dei DPI, l’irrogazione di sanzioni che, come si è detto, dipendono in ultima istanza da misure da prendere a livello di Stati membri. In altri termini, la sospensione costituisce solo una premessa per azioni di limitazione – ad es., l’emanazione di provvedimenti statali che impongono licenze obbligatorie – che vanno prese a livello di singolo Stato membro.
b) La richiesta di India e Sud Africa non riguarda solo i brevetti sui vaccini ma un’ampia gamma di DPI compreso il segreto commerciale in relazione a tutto quello che serve a contrastare la pandemia (kit diagnostici, mascherine, ventilatori, farmaci, vaccini ecc.). Con riferimento ai vaccini, se la sospensione fosse attuata nei termini richiesti da India e Sud Africa, uno Stato membro potrebbe non solo limitare i brevetti sui vaccini mediante licenza obbligatoria, senza dover rispettare tutti i requisiti previsti dall’art. 31 dei TRIPS, ma potrebbe anche imporre la licenza obbligatoria dei segreti commerciali, che rivestono un’importanza fondamentale nella produzione. Soprattutto, la sospensione potrebbe facilitare nei paesi a basso reddito l’importazione della tecnologia.
Molti paesi hanno appoggiato la richiesta di India e Sud Africa, ma per mesi il blocco occidentale – con gli USA, il Regno Unito e l’UE in testa – si è opposto alla sospensione, nonostante un vastissimo movimento di opinione pubblica, alimentato da numerose iniziative (ad es. qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui) e prese di posizione pubblica, comprese quelle di Papa Francesco (vedi: qui e qui).
La possibilità di rivalutare la richiesta in sede WTO è stata riaperta dall’amministrazione Biden, attraverso una dichiarazione di Katherine Tai dell’Office of the U.S. Trade Representative rilasciata il 5 maggio 2021.
La dichiarazione premette che l’amministrazione Biden crede fermamente nella tutela della proprietà intellettuale, ma allo scopo di porre fine alla pandemia, sostiene la richiesta di sospensione dei DPI sui vaccini anti-COVID-19. L’oggetto della dichiarazione è molto più circoscritto rispetto alla richiesta di India e Sud Africa che riguarda tutti i mezzi di prevenzione, contenimento e trattamento terapeutico del COVID-19.
L’apertura dell’amministrazione americana è stata accolta in modo contrastante.
In questa sede occorre rilevare che il processo per rendere operativa la sospensione è lento e macchinoso. Inoltre, occorrerà osservare le mosse del governo americano per capire se è effettivamente disposto a condividere la tecnologia delle sue agenzie, delle sue università e delle sue imprese.
In ogni caso, la sospensione per essere efficace deve corrispondere a legislazioni nazionali che diano ampi margini di potere nell’attuazione di licenze obbligatorie su brevetti e segreti commerciali.
4. Politiche a monte
4.1 Il rafforzamento della proprietà intellettuale nell’Unione europea e in italia in tempi di pandemia
La tesi di questo scritto – si ricorderà – è che la scienza aperta è incompatibile con politiche di rafforzamento della proprietà intellettuale. Sebbene, l’Unione Europea cerchi di accreditarsi come promotrice dell’Open Science, sta di fatto che la sua politica in materia di proprietà intellettuale è univocamente puntata al rafforzamento dei diritti di esclusiva. Il bilanciamento tra proprietà intellettuale e altri diritti fondamentali è perciò affidato alla contraddittoria giurisprudenza della Corte di Giustizia oltre che al diritto degli Stati Membri.
In tempi di pandemia la politica di rafforzamento continuo dei DPI risulta ancor più incomprensibile. A dispetto di un movimento di opinione imponente, che vede crescere la cerchia degli accademici inclini a chiedere un ripensamento complessivo della proprietà intellettuale, la Commissione Europea sembra impermeabile al dibattito pubblico. L’ultima riprova di questo atteggiamento si rinviene nell’Action Plan sui diritti di proprietà intellettuale di supporto alla strategia di ripresa e resilienza del 25 novembre 2020. Il documento è un florilegio di affermazioni come le seguenti:
“The COVID-19 crisis has illustrated EU’s dependence on critical innovations and technologies, and reminded Europe of the importance of effective IP rules and tools to secure a fast deployment of critical IP. IPRs, and their role in a competitive and innovative European pharmaceutical industry, are also part of the new Pharmaceutical Strategy for Europe”.
E ancora:
“[…] this action plan identifies five key focus areas, with specific proposals for action to:
upgrade the system for IP protection,
incentivise the use and deployment of IP, notably by SMEs,
facilitate access to and sharing of intangible assets while guaranteeing a fair return on investment,
ensure better IP enforcement, and
improve fair play at global level”
Il paragrafo 4 del documento si intitola “Easier access to and sharing of IP-protected assets”. La facilitazione dell’accesso e della condivisione della tecnologia protetta da DPI si basa sulle seguenti azioni.
“To facilitate licensing and sharing of IP, the Commission will:
-ensure the availability of critical IP in times of crisis, including via new licensing tools and a system to co-ordinate compulsory licensing (2021-22),
-improve transparency and predictability in SEP [Standard-essential patents] licensing via encouraging industry-led initiatives, in the most affected sectors, combined with possible reforms, including regulatory if and where needed, aiming to clarify and improve the SEPs framework and offer effective transparency tools (Q1 2022).
-promote data access and sharing, while safeguarding legitimate interests, via clarification of certain key provisions of the Trade Secrets Directive and a review of the Database Directive (Q3 2021)”.
“[…] i diritti di proprietà industriale (DPI) rivestono un ruolo cruciale poiché consentono di proteggere le idee, le opere e i processi frutto dell’innovazione, assicurando un vantaggio competitivo a chi li ha ideati; aprono la possibilità di valorizzare l’innovazione acquisendo nuovi mercati e offrono la possibilità di continuare ad investire sul futuro”.
Dunque:
“Accogliendo lo specifico invito della Commissione [UE], il documento delinea la strategia e gli interventi nazionali per rispondere a cinque sfide individuate per rafforzare la protezione e l’applicazione della PI, garantendo uno sforzo congiunto per la ripresa economica:
– migliorare il sistema di protezione della PI
– incentivare l’uso e la diffusione della PI, in particolare da parte delle PMI
– facilitare l’accesso ai beni immateriali e la loro condivisione, garantendo nel contempo un equo rendimento degli investimenti
– garantire un rispetto più rigoroso della proprietà industriale
– rafforzare il ruolo dell’Italia nei consessi europei ed internazionali sulla proprietà industriale”.
Rimarchevole la visione sulla proprietà industriale delle università e degli enti di ricerca:
“Ulteriore elemento che appare non consentire un’agevole connessione tra il sistema della ricerca e il mondo delle imprese è il livello di maturità tecnologica dei brevetti proposti, troppo spesso insufficiente per poter essere percepito come interessante dagli imprenditori. Sotto questo profilo l’obiettivo da perseguire è quello di mettere a disposizione delle imprese invenzioni maggiormente “comprensibili” e quindi in uno stato quasi, se non, prototipale.
Per innalzare il livello di maturità delle invenzioni brevettate dai soggetti appartenenti al mondo della ricerca pubblica affinché possano diventare oggetto di azioni di sviluppo da parte del sistema imprenditoriale, il Ministero propone di replicare, adeguandolo ad eventuali nuove esigenze che si dovessero manifestare, il bando già emanato nel 2020 per il finanziamento di progetti di proof of concept capaci, a seguito della loro realizzazione, di mettere a disposizione per la successiva valorizzazione veri e propri prototipi. Ad oggi sono stati finanziati 23 progetti (dei 45 ritenuti ammissibili) utilizzando interamente i 5,3 milioni di euro di risorse finanziarie disponibili”.
Un dubbio sorge spontaneo di fronte a queste affermazioni. Se la ricerca pubblica deve presentare al mercato invenzioni mature, dove sta l’innovazione del mercato? Ad esempio, nel campo dei vaccini se un’università pubblica elabora una tecnologia vaccinale matura, in base a cosa si giustifica la sua cessione al settore privato?
Ma il passaggio che evidenzia maggiormente lo sguardo largo e profondo del MISE su proprietà industriale e tutela della salute pubblica è il seguente:
“Nel suo Piano di azione la Commissione UE ricorda che “L’accordo dell’OMC sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPS) prevede la possibilità, alle condizioni ivi specificate, di rilasciare licenze obbligatorie, ossia stabilisce che la pubblica amministrazione ha il potere di autorizzare un soggetto a usare un’invenzione brevettata senza il consenso del titolare del brevetto. La procedura può essere accelerata in caso di emergenza nazionale. Dal combinato disposto di tali norme con la dichiarazione di Doha sull’accordo TRIPS e la salute pubblica emerge chiaramente che ogni membro dell’OMC ha non solo il diritto di concedere licenze obbligatorie, ma anche la libertà di determinare i motivi in base ai quali tali licenze sono concesse”.
Sul punto, l’Amministrazione intende verificare la possibilità di introdurre nell’ordinamento nazionale strumenti specifici in grado di far fronte tempestivamente a situazioni di crisi, come quelle sanitarie; l’obiettivo da perseguire è quello di privilegiare accordi volontari in grado di contemperare gli interessi legittimi dei detentori delle privative industriali con quelli generali della collettività, ricorrendo al rilascio di licenze obbligatorie solo in caso di fallimento di qualunque altro tentativo”.
4.2. Pubblico e privato nel contrasto alle epidemie e alle pandemie
Il mondo è arrivato impreparato alla sfida di una produzione e distribuzione rapida ed equa di vaccini antipandemici su scala globale.
Serve ripensare il sistema a monte restituendo un ruolo di primo piano al settore pubblico e coordinando le azioni statali dei singoli paesi. La proprietà intellettuale è solo uno dei tasselli di questa strategia. Ma è un tassello importante. Come si è cercato di dimostrare, interventi a valle sono necessari, ma insufficienti.
Da questo punto di vista, è stato giustamente ricordato che le attuali pratiche di scienza aperta si basano essenzialmente sui pochi spazi di libertà lasciati liberi dai diritti di esclusiva e soprattutto sull’uso degli stessi diritti di esclusiva allo scopo di diffondere la conoscenza. Tuttavia, l’uso di licenze aperte come la GNU General Public License (GPL) e delle Creative Commons Licenses (CCLs), nonché il tentativo di estendere le licenze aperte al campo brevettuale non è sufficiente a costruire un ecosistema aperto della conoscenza.
Per costruire tale sistema occorre almeno:
a) Riformare le leggi sulla proprietà intellettuale;
b) Restituire al settore pubblico il controllo delle infrastrutture strategiche e contemporaneamente fare in modo che quelle lasciate in mano privata non siano concentrate nelle mani di pochi (cioè attivare un’efficace tutela dell’antitrust).
“Almeno” perché la complessità del problema richiede interventi giuridici da molteplici prospettive.
In questa sede ci si limita a indicare alcune possibili opzioni sul piano delle leggi in materia di proprietà intellettuale e di esclusiva dei dati clinici, nonché delle politiche universitarie in materia di proprietà intellettuale (c.d. trasferimento tecnologico).
4.3 Brevetti e segreti su farmaci e vaccini. Esclusiva sui dati clinici
Le opzioni di politica legislativa per dare concretezza a tali riforma sono molte. Qui se ne possono segnalare alcune in riferimento a tutte le conoscenze e le tecnologie utili alla produzione di farmaci, vaccini e dispositivi essenziali per la tutela della salute e della vita.
a) Sottrarre i beni essenziali alla brevettabilità e alla tutela del segreto commerciale. Abrogare l’esclusiva sui dati clinici. La sottrazione al controllo esclusivo può essere sostituita da altri meccanismi come i premi agli innovatori o le innovazioni che provengono da università e centri di ricerca finanziati con fondi pubblici delegando i test clinici a istituzioni pubbliche (vedi, ad es., qui).
b) Dare solo al settore pubblico il diritto di brevettare, specificando che l’uso in via diretta o mediante licenze d’uso non esclusive a imprese private sia finalizzato alla distribuzione equa dei beni essenziali.
4.4 Università, enti o istituti pubblici di ricerca e proprietà intellettuale
La finalità della ricerca pubblica non dovrebbe essere quella di brevettare, ma di praticare la scienza aperta. Il dirottamento verso logiche di privatizzazione della conoscenza si declina non solo nelle politiche e nella disciplina legislativa della proprietà intellettuale, ma anche nei sistemi di valutazione.
Ad esempio, in Italia la valutazione amministrativa di Stato, gestita da un’agenzia governativa che opera in base al potere della spada e non della bilancia, considera i brevetti universitari alla stregua di pubblicazioni scientifiche al fine di attribuire “punti” valutativi nelle molteplici classifiche che dovrebbero determinare la migliore ricerca delle migliori strutture e dei migliori scienziati. Ovviamente, negli algoritmi valutativi conta anche (e soprattutto) il numero dei c.d. “prodotti della ricerca”. Un elevato numero di brevetti può dunque tradursi in maggiori opportunità di scalare la classifica di turno.
Un altro esempio. Nella politica di Open Access dell’Unione Europea relativa ai programmi quadro di ricerca il brevetto viene visto come alternativa alla pubblicazione in Open Access. L’idea che c’è dietro questa equiparazione è che anche il brevetto è destinato a essere pubblicato (normalmente, come si è detto, dopo 18 mesi dalla domanda presso l’ufficio competente) e dunque sarebbe uno strumento di apertura della scienza. Ma questa idea, fintamente ingenua del brevetto, trascura il fatto che la descrizione del contenuto dell’invenzione è operata tatticamente dal richiedente e che queste tattiche interagiscono con le prassi degli uffici brevetti e delle corti che controllo l’operato degli uffici brevetti. In altre parole, solo se l’ufficio brevetti applica criteri rigorosi con riferimento alla descrizione dell’invenzione, allora il brevetto trasmette conoscenza, altrimenti lascia spazio al segreto commerciale (nel brevetto si descrive il minimo necessario a soddisfare formalmente il requisito di legge, ma la parte sommersa del know how viene controllata mediante segreto). L’esempio dei vaccini, come rilevato da molti, dimostra che il brevetto descrive solo una parte degli elementi utili alla produzione. Dunque, l’equiparazione tra brevetto e pubblicazione scientifica è fallace.
In Italia, a parte l’oscura vicenda Reithera, durante la pandemia si sono susseguiti annunci di università pubbliche connessi alla possibile scoperta di un nuovo vaccino “italiano” (vedi, ad es., qui e qui). Al di là della fondatezza scientifica e tecnologica degli annunci, spesso rivelatisi dei meri ballon d’essai per sondare finanziatori e imprese, rimangono pesanti dubbi di fondo.
Se un’università pubblica brevetta un vaccino lo fa per cedere in esclusiva i diritti a un’impresa? O lo fa per concedere licenze non esclusive a più imprese? Solo italiane o anche estere? Solo a imprese o entità pubbliche di paesi a basso reddito? In base a quale politica di gestione del vaccino? La politica di gestione del brevetto non deve essere decisa a monte?
In Italia il tentativo entusiastico e superficiale di imitare le politiche americane di trasferimento tecnologico basate sul Bayh-Dole Act del 1980 – che consente ai soggetti finanziati con fondi pubblici federali di brevettare le invenzioni elaborate a seguito del finanziamento, e soprattutto sul sistema di interfaccia tra università e imprese – ha fatto trascurare gli effetti collaterali di un’estesa brevettazione della ricerca pubblica. Il mantra del trasferimento tecnologico basato sui brevetti e altri DPI come pietra filosofale che trasformerebbe magicamente la ricerca di base in innovazione ha sottostimato le ricadute in termini di riduzione degli spazi di manovra delle norme sociali, della prassi e della mentalità della scienza aperta. Nonostante, la letteratura critica venga soprattutto dagli Stati Uniti, anche in riferimento alla questione della ricerca sui vaccini finanziata con fondi pubblici, i policy maker italiani hanno continuato a narrare il trasferimento tecnologico da università a imprese basato sui DPI come un strumento decisivo per risollevare un paese afflitto da un cronico ritardo sul piano dell’innovazione tecnologica (si vedano a mo’ di ultimo esempio le “Linee di intervento strategiche sulla proprietà industriale per il triennio 2021-2023” sopra citate) .
Ammesso (e non concesso) che questa narrazione corrisponda alla realtà, si può seriamente sostenere che possa valere per vaccini e altri farmaci essenziali?
Quale che sia la scelta a monte dei policy maker residua, grazie all’art. 33 Cost., a ogni istituzione pubblica di ricerca un margine di libertà e di scelta. Insomma, si può scegliere ancora di avere una politica di scienza aperta e di non brevettazione dei risultati della ricerca.
Vale la pena riprendere alcune importanti affermazioni contenute nella pagina.
Perché quindi rimanere oggi al di fuori della impostazione brevettistica?
Lo facciamo soprattutto per essere liberi. Liberi nell’orientamento e nella selezione dei temi di ricerca. Se invece l’obiettivo fosse il brevetto e il suo sfruttamento, sarebbe inevitabile orientarsi verso ricerche economicamente sfruttabili.
LIBERTÀ DA CONFLITTI DI INTERESSE
Scegliere di non brevettare le proprie scoperte evita di cadere in un conflitto di interesse. Inevitabilmente essere titolari di un brevetto spinge a promuovere e difendere in ogni modo il proprio prodotto. Se per esempio si tratta di un farmaco può indurre a una valutazione del rapporto fra benefici e rischi non sempre obiettiva.
LIBERTÀ DI CRITICA
Se il brevetto arriva a realizzare un farmaco – cosa poco frequente – è difficile essere oggettivi. La vendita del farmaco comporta royalties e il tentativo di massimizzarle diventa inevitabile. Inoltre, molti ricercatori hanno funzioni consultive, a loro possono essere richiesti pareri da parte delle autorità regolatorie o del Servizio Sanitario Nazionale. Come potranno essere distaccati nel giudizio nei confronti del loro farmaco o dell’azienda che lo produce oppure nei confronti dei prodotti concorrenti il cui successo rischia di far diminuire le royalties?
LIBERTÀ DI COMUNICARE
La realizzazione di brevetti richiede confidenzialità, segreto, mentre la scienza, in particolare quella biomedica, deve essere aperta e trasparente. La pubblicazione dei propri risultati può avere conseguenze inimmaginabili, può cambiare il corso delle ricerche di altri gruppi di ricercatori ed essere così punto di partenza per altre scoperte. I ricercatori hanno il dovere di dare informazioni corrette al pubblico attraverso i mass media, e quindi devono essere liberi di non avere remore o sottacere:
· quando la comunicazione dei produttori dei farmaci eccede nel promuoverne gli effetti favorevoli o minimizza quelli dannosi,
· quando si promettono inverosimili successi,
· quando il costo dei farmaci è sproporzionato e insostenibile.
È augurabile quindi che i ricercatori e i loro istituti siano scevri dal sospetto di avere interessi economici, in modo da fugare ogni dubbio da parte di chi viene informato. Se si è privi di interessi diretti è più facile essere obiettivi.
LIBERTÀ DI COLLABORARE
In un mondo che richiede sempre più collaborazioni multidisciplinari con altre istituzioni è più facile interagire quando la collaborazione non nasconde la possibilità di utilizzare le idee degli altri per ottenere vantaggi per i propri brevetti.
In conclusione, non mettiamo in discussione l’importanza che l’industria tuteli i propri prodotti con il brevetto, ma suggeriamo che nella collaborazione tra industria e accademia ciascuno mantenga chiaro il proprio ruolo e il proprio profilo etico. Tra industria e accademia è necessario instaurare un reale interesse scientifico, che sia complementare fra le due parti, evitando strumentalizzazioni propagandistiche. Le istituzioni scientifiche non devono accettare fondi per ricerca che in realtà mascherino la richiesta di un supporto in altre direzioni.
Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi.
Dunque, non è peregrino immaginare un vaccino libero e aperto. Se un’istituzione finanziata con fondi pubblici decidesse di pubblicare la tecnologia vaccinale distruggerebbe il requisito della novità dell’invenzione impedendo ad altri di brevettare. Ovviamente, quel che succede dopo la brevettazione dipende sempre dal diritto e da come viene interpretato. Come si è già rilevato, praticare la scienza aperta in un campo minato (un contesto giuridico) disseminato di esclusive è difficile. L’alternativa, anch’essa da sperimentare e da verificare, è usare la proprietà intellettuale per rendere un eventuale nuovo vaccino un bene comune. Cioè di fare ricorso alla logica della GNU General Public License e delle Creative Commons applicandola alle biotecnologie.
5. Conclusioni
La vicenda della proprietà intellettuale sui vaccini è una pagina di un capitolo alquanto esteso della storia dell’arretramento del settore pubblico in un territorio – quello di infrastrutture, beni e servizi essenziali – di fondamentale importanza per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’umanità.
Quel capitolo narra molte altre vicende relative, ad esempio, al software, alle pubblicazioni e ai dati scientifici, al patrimonio culturale, all’agricoltura e alle sementi. In tutti questi settori l’arretramento del settore pubblico o una sua diversa concezione che lo modella sulla forma del (o lo mischia con il) settore privato votato al profitto, ha comportato il sacrificio dell’interesse generale di tutti a favore degli interessi particolari di pochi.
Ciò non significa necessariamente che lo Stato non sia presente nelle scelte decisive, significa solo che le logiche di profitto, di competizione e di dominio si sostituiscono a quelle di progresso, cooperazione e solidarietà. Il caso degli Stati Uniti è paradigmatico da questo punto di vista.
Perciò, la questione dei vaccini rimane geopolitica. L’irrisolvibile antagonismo tra scienza aperta e proprietà intellettuale non descrive solo la contrapposizione tra opposte concezioni del ruolo del settore pubblico, ma anche opposte concezioni di come usare sul piano internazionale l’immenso potere che proviene dalla conoscenza e dalla tecnologia.
La scienza dopo la pandemia sarà migliore? La risposta a questa domanda dipende da scelte che vanno prese adesso. L’importante è evitare le ambiguità, chiarire il significato delle parole come scienza aperta e proprietà intellettuale, e assumersi la responsabilità delle proprie scelte.
R. Caso, F. Binda, Il diritto umano alla scienza aperta, Trento LawTech Research Papers, nr. 41, Trento, Università degli studi di Trento, settembre 2020
“Diritto agroalimentare e scienza aperta” – Workshop 21 e 22 maggio 2021 organizzato dall’Università di Trento e dal Centro Europeo di Eccellenza Jean Monnet in collaborazione con l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA)
Roberto Caso, Prefazione al volume di Rudy Gorian, “Autori, bibliotecari, open access”, Trento, 2021
L’esperienza di lavoro e ricerca narrata da Rudj Gorian in questo volume si iscrive nelle azioni dell’Università di Trento dedicate allo sviluppo dell’accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche. Il testo viene pubblicato in un momento storico caratterizzato da tre rilevanti fenomeni: (a) il passaggio dall’open access all’open science; (b) il confronto tra due logiche di attuazione dei principî di apertura: no profit e commerciale; (c) l’entrata in scena della pandemia da CoViD-19.
(a) Il passaggio dall’open access all’open science
L’open access è nato come movimento teso a rendere gratuitamente accessibili e riutilizzabili le pubblicazioni scientifiche su Internet. Il movimento costituisce l’ideale prosecuzione di quello che avvenne successivamente all’invenzione della stampa a caratteri mobili, quando i filosofi naturali scelsero di potenziare il loro dialogo affidandolo alle presse tipografiche. Si determinò così uno dei tratti ontologici della scienza moderna: la pubblicità.
L’idea di pubblicare online i risultati delle ricerche scientifiche si intreccia con la storia del software e della Rete. Il software a codice sorgente aperto (open source) e lo sviluppo pubblico e cooperativo dei protocolli di Internet rappresentarono il terreno di valori e principî nel quale si fece strada l’accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche.
Oggi l’apertura non si limita più alle pubblicazioni scientifiche ma si estende all’intero processo di creazione, revisione, comunicazione e trasmissione dei risultati della ricerca. I dati della ricerca, la revisione paritaria, le risorse didattiche e il dialogo tra scienziati e cittadini transitano e si trasformano attraverso pratiche di apertura e trasparenza. Per questo si usa oggi parlare non solo di open access ma anche e soprattutto di open science.
(b) Il confronto tra due logiche di attuazione dei principî di apertura
A distanza di due decenni dalle grandi dichiarazioni che hanno offerto una prima formalizzazione ai principî dell’open access possiamo affermare che il sogno della realizzazione di un sistema aperto di comunicazione della scienza indipendente da potentati commerciali non si è realizzato.
I grandi editori commerciali oligopolisti, trasformatisi in piattaforme di analisi dei dati, dominano la scena e minacciano di colonizzare il mondo della scienza aperta.
Ciò deriva essenzialmente da due ragioni: il dilagare della valutazione quantitativa della scienza e l’estensione delle leggi sulla proprietà intellettuale e sul diritto d’autore. Gli scienziati appaiono sempre più interessati a scalare le pervasive classifiche valutative e sempre meno attenti a coltivare la propria libertà. Il che spiega perché ci siano folte schiere di autori scientifici e istituzioni accademiche disposte a pagare prezzi esorbitanti per pubblicare in open access, pur di potersi fregiare di un qualche (presunto) bollino di qualità editoriale. Eppure, esistono alternative sostenibili – a cominciare dagli archivi istituzionali oggetto della riflessione di Rudj Gorian – che mantengono il controllo del sistema di comunicazione nelle mani delle istituzioni scientifiche e accademiche non dedite al profitto.
D’altra parte, le leggi sulla proprietà intellettuale e sul diritto d’autore sono cucite addosso a interessi commerciali che nulla hanno a che fare con l’uso pubblico della ragione scientifica. Lo scopo dell’autore scientifico, infatti, non è quello di guadagnare dal commercio del proprio testo, ma di veder viaggiare le proprie idee nella mente dei lettori, in attesa che questi ultimi reagiscano attraverso altre pubblicazioni. Un circolo virtuoso teso a illuminare e rischiarare il pensiero di tutti, spingendo più in là i confini della conoscenza.
Paradossalmente, un tale scopo, proprio nel momento in cui l’uomo dispone della più potente tecnologia per far viaggiare le idee, viene sacrificato dalla legge sul diritto d’autore. Se l’autore scientifico cede i propri diritti economici all’editore, sarà quest’ultimo a determinare come e quando l’opera potrà circolare. Per tale motivo, occorrerebbe riformare profondamente le leggi sul diritto d’autore. Si potrebbe cominciare conferendo all’autore scientifico un diritto irrinunciabile e inalienabile di ripubblicazione. In Italia, ad esempio, mentre si discute dell’attuazione dell’ultima (pessima) direttiva dell’Unione Europea sul diritto d’autore (la 2019/790), giace dimenticata in un cassetto del Senato della Repubblica la cosiddetta proposta Gallo sull’accesso aperto (DDL n. 1146), che rappresenta un (pur timido) passo in avanti verso il riconoscimento di un diritto di ripubblicazione in open access.
(c) L’entrata in scena della pandemia da CoViD-19
La pandemia da CoViD-19 potrebbe essere meglio contrastata se la scienza fosse aperta. Non mancano esempi virtuosi che muovono in questa direzione.
Tuttavia, si può nutrire più di un dubbio sul fatto che siamo di fronte a un cambiamento profondo e duraturo, animato dai valori della condivisione, della cooperazione e della solidarietà. In altre parole, il diritto umano alla scienza aperta è ancora lungi dal trovare diffusa e concreta realizzazione. Gli interessi commerciali e di accentramento del potere decisionale di cui si è accennato sopra al punto (b) sono forti come non mai. Lo sono in particolare nel mondo delle università dove le logiche del profitto sono penetrate a fondo, tanto da cambiare la mentalità degli accademici.
Di fronte a un quadro di tale complessità, la narrazione delle vicende recenti di un archivio della ricerca di una università italiana dimostra che la speranza di affermare una scienza davvero libera e aperta si coltiva anche con l’importante lavoro di chi cura i metadati delle pubblicazioni scientifiche. Se gli archivi come l’IRIS dell’Università di Trento fossero visti come parte delle piattaforme editoriali accademiche, e non come strumenti burocratico-valutativi di controllo delle agenzie amministrative, potrebbero essere apprezzati dagli autori scientifici per il loro valore intrinseco.
Un tale cambio di visione, accompagnato magari da una semplificazione tecnologica, spingerebbe (forse) a praticare con più costanza la ripubblicazione in accesso aperto sugli archivi istituzionali. A questo proposito, colpisce la scarsa propensione degli afferenti all’Università di Trento a ripubblicare in accesso aperto sull’archivio IRIS anche quando si dispone del diritto d’autore per farlo. Gli ultimi dati a disposizione ci dicono che solo il 20% circa delle pubblicazioni registrate tra il 2015 e il 2019 sull’archivio della ricerca è accompagnato da testi in open access. Il dato potrebbe salire al 25% circa, una volta portato a termine il processo di validazione (cioè di controllo) dei metadati da parte dei bibliotecari.
Guardando oltre gli archivi istituzionali, non c’è dubbio che se le università italiane volessero davvero sviluppare la scienza aperta dovrebbero investire ingenti risorse. Si allude, nemmeno a dirlo, a risorse nelle infrastrutture, nell’assunzione di personale tecnico-amministrativo, nella formazione di studenti, docenti e ricercatori. Di più, dovrebbero tornare a concepire l’insegnamento e la ricerca non come pratiche finalizzate a scalare classifiche valutative, ma come missioni fondamentali per lo sviluppo del pensiero critico e il progresso della conoscenza.