Proprietà intellettuale e scienza aperta nelle politiche dell’Unione Europea su ricerca e innovazione

23.03.2024

Roberto Caso, Proprietà intellettuale e scienza aperta nelle politiche dell’Unione Europea su ricerca e innovazione. Quale ruolo per il settore pubblico e l’università?, Trento LawTech Research Paper, n. 60 (2024), Zenodo, in corso di pubblicazione negli atti del XXVII Colloquio Biennale “Public and Private in Contemporary Societies” dell’Associazione Italiana di Diritto Comparato (AIDC), svoltosi presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Taranto-Bari, il 25-27 maggio 2023

Diritto, politica ed economia dell’innovazione tecnologica. 1940, 1980, 2020

8 marzo 2024

Roberto Caso, Diritto, politica ed economia dell’innovazione tecnologica. 1940, 1980, 2020, 8 marzo 2024, Il Diritto dell’Innovazione Tecnologica, Università Roma Tor Vergata, Fodazione Luigi Einaudi, Roma, 8 e 9 marzo 2024, versione 1.0, Zenodo

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Grazie al prof. Vincenzo Ricciuto per avermi invitato a dialogare con autorevoli colleghe e colleghi nell’ambito di questa jam session sul diritto dell’innovazione tecnologica.

Proverò ad occuparmi di diritto, politica ed economia nel rapporto tra università, proprietà intellettuale e innovazione tecnologica.

In questa mia brevissima (e non so quanto felliniana) “prova d’orchestra” offrirò uno sguardo da realista e comparatista al tema in discussione.

Farò riferimento a tre date simboliche di cui si capirà meglio il significato alla fine del mio intervento: 1940, 1980, 2020. Il nesso con il 1940 sarà svelato solo alla fine.

Credo che uno dei meriti della comparazione giuridica italiana sia stato di aver contribuito ad alimentare un approccio critico al diritto. La comparazione va realisticamente oltre l’approccio formalista al diritto positivo per indagare storicamente l’evoluzione dei sistemi giuridici. E va oltre il diritto positivo di un Paese mettendo a confronto sincronico i sistemi giuridici contemporanei ma anche dialogando con altri saperi: la linguistica, l’antropologia, l’economia, l’informatica, le scienze biomediche, l’arte, la letteratura ecc.

Vincenzo Ricciuto ha gentilmente offerto una lista di domande per dare inizio alla musica.

Ne ho scelte due:

  1. Quali dovrebbero essere i tratti caratteristici e specifici della metodologia della ricerca giuridica nel campo dell’innovazione tecnologica?
  2. Quali sono i pregi e le mancanze del modo di legiferare dell’UE in tema di nuove tecnologie?

Per comprendere pregi e mancanze del modo di legiferare dell’UE serve una buona metodologia d’indagine. Il mio suggerimento è che questa metodologia potrebbe ispirarsi non solo alla tradizione comparatistica ma anche ad un nuovo movimento di idee che passa sotto il nome “Law and Political Economy” e vede tra i suoi promotori Amy Kapczynski di Yale. La premessa dalla quale parte il movimento è che politica ed economia non possono essere separate e che entrambe sono strettamente intrecciate con il diritto. In un’epoca segnata dal cambiamento climatico, dalle guerre, nonché dalle diseguaglianze enormi e crescenti che mettono a rischio i sistemi democratici, occorre indagare i fenomeni come l’innovazione tecnologica tenendo congiuntamente presenti le tre dimensioni della politica, dell’economia e del diritto.

In questa prospettiva, l’approccio legislativo europeo al rapporto tra università, innovazione tecnologica e proprietà intellettuale è stato pesantemente influenzato da quello statunitense per via diretta o per via indiretta, attraverso trattati internazionali sui quali la voce degli USA ha contato molto.

Due sono gli aspetti notevoli della politica e della legislazione europea sui quali vorrei provare ad attirare l’attenzione.

  1. L’assunto che l’estensione della proprietà intellettuale (nuovi diritti di proprietà intellettuale e rafforzamento delle esclusive) condurrebbe a maggiore innovazione. Si tratta di una sorta di equazione: più proprietà intellettuale equivale a più innovazione tecnologica.
  2. Una visione strumentale dell’università finalizzata a garantire un flusso di diritti di proprietà intellettuale dalla ricerca di base (appannaggio delle istituzioni accademiche) alla ricerca applicata (appannaggio delle imprese, e in particolare delle start-up). Si tratta dell’idea alla base del Bayh-Dole Act statunitense del 1980. 1980, ecco la seconda data simbolica!

Gli europei si sono, talora, dimostrati più realisti del re. Cioè più estremisti degli americani. Per esempio, quando nel 1996 hanno introdotto il diritto sui generis sulle banche dati, ritenendo che ciò avrebbe dato un vantaggio competitivo alle imprese europee. Assunto poi dimostratosi disastrosamente infondato. Nell’ultima legislazione sui dati (Open Data Directive, Data Governance Act, Data Act) l’UE ha tentato di arginare il diritto sui generis. Resta il fatto, però, che si è scelto di tenere in vita un diritto di esclusiva il cui effetto incentivante è – a detta della stessa Commissione UE – indimostrato.

Una tesi, supportata da un’ampia letteratura scientifica, sostiene che l’estensione della proprietà intellettuale e la visione strumentale dell’università hanno nutrito il capitalismo dei monopoli intellettuali deprimendo l’innovazione, accrescendo la disuguaglianza e mettendo a rischio la democrazia. Il quadro è ulteriormente peggiorato quando alla proprietà intellettuale si è aggiunta la pseudo-proprietà intellettuale cioè quel complesso di forme anomale di esclusiva che vanno oltre i limiti tradizionali della proprietà intellettuale e si fondano soprattutto sul controllo contrattuale e di fatto (cioè assistito dalla forza bruta della tecnologia) di dati e informazioni.

In un modello stilizzato e ideale di innovazione tecnologica di un sistema capitalistico ci sono, a monte, il settore pubblico e le università che creano ricerca di base attenendosi ai principi della scienza aperta e, a valle, un mercato concorrenziale che produce ricerca applicata e si serve di una proprietà intellettuale limitata per commercializzare le nuove tecnologie. La concorrenzialità del mercato spinge verso il basso il prezzo della tecnologia, in modo da garantire attraverso contratti o mediante meccanismi redistributivi (ad es. sovvenzioni pubbliche) l’accesso all’innovazione.

Questa idealizzazione è distante anni luce dalla realtà attuale per diversi ordini di ragione.

  1. Le università non sono più entità nettamente distinte dalle aziende, perché sono organizzate secondo logiche aziendali, anche sul piano della valutazione. Si tratta di una questione giuridica (architettura istituzionale e norme sulla valutazione), ma anche di etica e mentalità.
  2. Le prassi accademiche e l’etica della scienza aperta sono state progressivamente erose dal crescente ricorso da parte dei ricercatori alla proprietà intellettuale. Tale uso estensivo dei diritti esclusiva è il frutto di incentivi non solo economici ma anche valutativi (si pensi, al fatto che sul piano della valutazione della ricerca accademica i brevetti sono, almeno in Italia, considerati equivalenti alle pubblicazioni scientifiche). L’uso della proprietà intellettuale innesca conflitti insanabili tra l’interesse a perseguire il progresso della conoscenza e l’interesse al profitto. Per rendersene conto è sufficiente leggere le ragioni che hanno spinto l’Istituto Mario Negri a rinunciare ai brevetti.
  3. I grandi monopoli intellettuali non devono necessariamente aspettare che il settore pubblico e le università decidano di trasferire la conoscenza, perché sono in grado di appropriarsene direttamente. Si pensi al crescente dominio delle Big Tech nel campo delle infrastrutture accademiche, dominio che si esprime non solo nell’appropriazione di dati della ricerca scientifica (ora finalizzata anche all’addestramento dell’intelligenza artificiale), ma anche di dati personali degli scienziati (è noto che nell’ambito della ricerca scientifica opera diffusamente il capitalismo della sorveglianza). Si pensi altresì alla cattura culturale tramite il ricco finanziamento di progetti i cui risultati sono orientati agli interessi dei finanziatori privati (i monopoli intellettuali).
  4. La geopolitica interferisce nelle dinamiche di chiusura e apertura dell’innovazione. In tempi di guerre e crescente tensione tra diverse potenze, la chiusura della conoscenza scientifica viene usata come strumento bellico.

Quanto finora rilevato potrebbe apparire in stridente contraddizione con il fatto che le politiche dell’UE in materia di rapporto tra università, proprietà intellettuale e innovazione tecnologica hanno negli ultimi venti anni riguardato anche la promozione dell’Open Science. È innegabile, infatti, che l’UE abbia sviluppato un’ampia, articolata e – per molti versi – meritoria politica di promozione della scienza aperta.

Tuttavia, la strategia di difesa e rafforzamento della proprietà intellettuale è rimasta sostanzialmente invariata. Come è rimasta invariata la concezione del rapporto tra università, proprietà intellettuale e innovazione tecnologica. Basti pensare a quanto accaduto durante la pandemia di Covid-19 a proposito della proprietà intellettuale sui vaccini. E siamo giunti alla terza data simbolica: il 2020.

L’UE è stata tra i più strenui oppositori della proposta di India, Sudafrica e molti altri Paesi di sospendere i TRIPS al fine di facilitare la produzione di dispositivi medici, farmaci e vaccini. Nello stesso tempo non è stata in grado di sviluppare, produrre e distribuire vaccini interamente europei. Si è dovuta, in gran parte, affidare a imprese non europee come Pfizer e Moderna.

In un ecosistema dell’innovazione tecnologica dominato dal capitalismo dei monopoli intellettuali, la promozione della scienza aperta rischia di essere, nel migliore dei casi, inefficace o limitatamente efficace e, nel peggiore, uno strumento per rafforzare gli stessi monopoli.

Per promuovere la scienza aperta intesa come scienza pubblica e democratica occorrerebbe procedere seriamente verso la demolizione dei monopoli intellettuali, a cominciare da una seria e organica riforma della proprietà intellettuale. Ma questo sembra un compito immane, non alla portata dell’UE, oltre che estraneo all’agenda politica di questa e, con tutta probabilità, della prossima Commissione UE.

La scienza aperta è parte integrante della liberà accademica e del dialogo cosmopolita che aiuta la cooperazione e la pace. Insomma, è un insieme di valori e ideali fuori dal nostro tempo. A meno che le nuove generazioni dentro e fuori dall’Europa non siano capaci di costruire un futuro migliore del presente che abbiamo consegnato loro.

Torniamo ora alla prima data simbolica: il 1940. Luigi Einaudi, al cui nome e alla cui memoria è intitolata la Fondazione sede di questo convegno, poteva scrivere nell’anno in cui l’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale: “Si è più scettici intorno alla probabilità che la garanzia concessa agli scrittori ed inventori dello sfruttamento esclusivo temporaneo del libro e dell’invenzione conduca al desiderato scopo. Si teme l’incoraggiamento inutile delle cattive lettere in materia di proprietà letteraria e il monopolio dei grossi potenti accaparratori e fabbricanti di invenzioni in materia di proprietà industriale. […] I pericoli proprii del sistema odierno sono così gravi, particolarmente per la proprietà industriale, che una revisione dei principii della legislazione oggi invalsa in quasi tutti i paesi appare urgente”.

Bibliografia essenziale

Commissione UE [2020], Piano d’azione sulla proprietà intellettuale “Sfruttare al meglio il potenziale innovativo dell’UE — Piano d’azione sulla proprietà intellettuale per sostenere la ripresa e la resilienza dell’UE”

L. Einaudi [1940], Rileggendo Ferrara – a proposito di critiche recenti alla proprietà letteraria ed industriale, in Rivista di storia economica, V, n. 4, dicembre 1940, pp. 217-256

M. Florio [2021], La privatizzazione della conoscenza, Bari-Roma, Laterza, 2021

E.R. Gold [2021], The fall of the innovation empire and its possible rise through open science, Research Policy 50 (2021) 104226

Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, Perché non brevettiamo le nostre ricerche

A. Kapczynski et al. [2019] New Law and Political Economy Project Launched, 29.04.2019

U. Pagano [2021], Il capitalismo dei monopoli intellettuali, Menabò Eticaeconomia, 14 dicembre 2021

M.C. Pievatolo [2021], I custodi del sapere, in Bollettino Telematico di Filosofia Politica, 31 maggio 2021

D. Traficonte [2021], Property and Power on the Endless Frontier (August 9, 2021). Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3901914 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3901914

T. Wu [2021] La maledizione dei giganti. Un manifesto per la concorrenza e la democrazia, Bologna, Il Mulino, 2021

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Patrimonio culturale di pubblico dominio (riproduzione del)

Voce del Dizionario AISA della scienza aperta. 10.02.2024

R. Caso, Patrimonio culturale di pubblico dominio (riproduzione del), in AISA, Dizionario della scienza aperta, 10.02.2024, Zenodo

Del patrimonio culturale dell’umanità fanno parte opere dell’ingegno i cui diritti economici d’autore sono scaduti e, in grande quantità, opere che non sono mai state protette dal diritto d’autore come il David di Michelangelo e l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Queste ultime rappresentano una porzione notevole del patrimonio culturale, in quanto le leggi del diritto d’autore occupano una minuscola frazione della storia dell’uomo. Basti ricordare che la prima legge moderna del diritto d’autore è rappresentata dallo Statute of Anne inglese del 1710.

L’appartenenza di un’ampia parte del patrimonio culturale al pubblico dominio potrebbe far desumere che la riproduzione – in particolare, la riproduzione digitale – dei beni culturali sia libera per ragioni commerciali e non commerciali. Così non è. L’effettiva esistenza di un regime di pubblico dominio è minacciata da istanze di controllo esclusivo avanzate da chi ha la proprietà o la custodia del bene culturale materiale oggetto della riproduzione. Tali istanze sono generalmente mosse da due obiettivi: un controllo censorio e un controllo economico. Il primo obiettivo attiene a valutazioni sulla compatibilità dell’uso con la destinazione del bene, il secondo concerne prospettive di guadagno connesse all’uso.

Le istanze di controllo esclusivo si basano, in gran parte, su strumenti giuridici che costituiscono forme anomale di proprietà intellettuale definibili come surrogati della proprietà intellettuale o pseudo-proprietà intellettuale. Qui di seguito si elencano i principali strumenti di controllo esclusivo.

a) Divieti di riproduzione basati sulla proprietà del bene materiale.

b) Divieti di riproduzione basati su dichiarazioni unilaterali o contratti.

c) Divieti di riproduzione basati su discipline pubblicistiche attinenti al patrimonio culturale.

d) Divieti di riproduzione basati su diritti della personalità.

Il movimento dell’accesso aperto al patrimonio culturale – ad esempio, la rete OpenGLAM – sta profondendo energie nella promozione della libera riproduzione del patrimonio culturale. Molte istituzioni culturali nel mondo garantiscono la libera riproduzione per qualsiasi fine, commerciale e non commerciale, delle proprie collezioni fisiche e digitali. Tuttavia, l’apertura su Internet del patrimonio culturale è ancora molto lontana dal rappresentare il modello dominante.

Emblematico è il panorama Euro-italiano.

A livello dell’Unione Europea la disciplina giuridica emanata per la tutela del pubblico dominio è frammentaria, incompleta e solo parzialmente efficace. In particolare, l’art. 14 della Direttiva (UE) 2019/790 sulla riproduzione delle opere delle arti visive di dominio pubblico è una disposizione che ha uno scopo limitato e presta il fianco a interpretazioni che ne restringono ulteriormente il campo di applicazione.

A livello italiano si sta facendo avanti l’idea che gli articoli dal 106 al 108 del Codice dei beni culturali (D.lgs. 2004/42) attribuiscano allo Stato il potere di controllo esclusivo delle riproduzioni. Si badi che tale controllo esclusivo non riguarderebbe solo le riproduzioni effettuate sul luogo dove è collocato fisicamente il bene materiale, ma si estenderebbe anche alle riproduzioni delle copie già effettuate sul luogo e comunicate al pubblico. In particolare, l’estensione riguarderebbe anche le copie digitali reperibili su Internet. In alcune interpretazioni giurisprudenziali il potere di controllo esclusivo derivante dal Codice dei beni culturali si assocerebbe a un preteso diritto all’immagine del bene culturale fondato sulla disciplina dei diritti della personalità rinvenibile nella Costituzione e nel Codice civile.

L’esempio del patrimonio culturale dimostra che il pubblico dominio è minacciato non solo dall’estensione della proprietà intellettuale ma anche dall’irrompere sulla scena giuridica della pseudo-proprietà intellettuale.

Le istanze di controllo esclusivo della riproduzione dei beni culturali incidono pesantemente sulla scienza aperta e sui beni comuni della conoscenza erodendo diritti e libertà fondamentali che attengono allo sviluppo nonché alla promozione della cultura e della ricerca.

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Verso una città smart e dispotica? No del Garante privacy ai progetti MARVEL e PROTECTOR del Comune di Trento

31.01.2024

R. Caso, Verso una città smart e dispotica? No del Garante privacy ai progetti MARVEL e PROTECTOR del Comune di Trento, vesione 1.0, 31.01.2024, Zenodo pubblicato su L’Adige del 03.02.2024 con il titolo “L’equilibrio tra privacy e sicurezza” (v. anche R. Caso, Sorveglianza artificiale, sicurezza urbana e privacy, 10 novembre 2023, pubblicato su L’Adige del 14 novembre 2023 con il titolo “Intelligenza artificiale. Dubbi e domande su Marvel e Protector“).

https://www.marvel-project.eu/trento/

Con un provvedimento di quaranta pagine dell’11 gennaio scorso il Garante per la protezione dei dati personali ha dichiarato, in base al Regolamento dell’Unione Europea 2016/679 (GDPR) e al Codice italiano in materia di dati personali (d.lgs. 2003/196), l’illiceità del trattamento dei dati personali effettuato dal Comune di Trento nell’ambito dei progetti di ricerca MARVEL e PROTECTOR. Si tratta di studi finanziati dall’Unione Europea e connessi al progetto “Trento smart city”. Tali ricerche prevedevano la raccolta di informazioni personali in luoghi pubblici attraverso telecamere di videosorveglianza e microfoni nonché da social network al fine di rilevare, tramite software di intelligenza artificiale, potenziali situazioni di pericolo per la pubblica sicurezza anche con riferimento a luoghi di culto religioso. La finalità del trattamento dei dati personali era perciò l’addestramento dei software di intelligenza artificiale.

Il Garante privacy ha ordinato al Comune di Trento il pagamento di una sanzione di 50.000 Euro, riducibili alla metà se il pagamento avviene entro 30 giorni, ha vietato di trattare i dati personali già raccolti e ha imposto la cancellazione degli stessi. Infine, l’autorità garante ha disposto la pubblicazione del provvedimento sul proprio sito web.  La sanzione non è elevata perché il Garante ha riconosciuto al Comune di aver agito in buona fede. Ma i motivi di illeceità rilevati dal Garante sono gravi e molteplici: assenza di una base giuridica per la liceità del trattamento; insufficiente trasparenza del trattamento; mancanza delle misure necessarie a proteggere i dati e a ridurre i rischi.

A parere del Garante, la mancanza di una base giuridica è tanto più grave per il fatto di riguardare dati estremamente sensibili, relativi a crimini e a convinzioni religiose, oggetto, nell’ambito della normativa sulla privacy, di una disciplina speciale volta rafforzare la tutela delle persone. Sul profilo della trasparenza l’autorità ha evidenziato che le informative di primo (segnaletica e cartelloni stradali di avvertimento) e di secondo (il sito web del Comune) livello erano carenti, cioè non mettevano le persone che passavano nelle zone sorvegliate di conoscere i dettagli relativi al trattamento dei dati personali. Sul piano delle misure di prevenzione il Garante ha rilevato che le tecniche di anonimizzazione erano deficitarie e non era stata effettuata la valutazione d’impatto dei trattamenti previsti sulla protezione dei dati personali. Un altro profilo di gravità attiene al fatto che i dati erano destinati ad essere comunicati ai partner dei progetti internazionali (nell’ambito del progetto PROTECTOR i dati erano condivisi con la Polizia di Anversa e con il Ministero dell’Interno della Bulgaria).

Sul proprio sito web il Comune il 24 gennaio affermava che avrebbe valutato nei giorni successivi se presentare opposizione al provvedimento del Garante davanti al giudice ordinario. Il 30 gennaio il Sindaco del Comune di Trento ha rilasciato un’intervista al quotidiano La Repubblica. Secondo quanto riportato dal giornale “per il sindaco la questione non è solo trovare un equilibrio tra il rispetto della privacy e la garanzia di sicurezza, ma anche ‘realizzare degli strumenti per conto nostro o rimanere indietro e dover utilizzare quelli degli altri, che magari li progetteranno con minore cura’”.

Quest’ultima asserzione, se presa alla lettera, induce a porsi domande molto serie e impellenti.

  1. In un Paese democratico come l’Italia, la prevenzione e il contrasto al crimine commesso negli spazi pubblici sarà sempre più affidata a tecnologie digitali di controllo pervasivo come videocamere, microfoni, sensori, software di monitoraggio dei social network?
  2. Per smart city si deve intendere una città che affida la sua sicurezza alla sorveglianza di massa?
  3. Quale fondamento scientifico hanno i software di intelligenza artificiale che promettono di rilevare potenziali situazioni di pericolo per la pubblica sicurezza?
  4. Se questo fondamento scientifico esiste, i cittadini hanno diritto a conoscere la logica alla base degli algoritmi di intelligenza artificiale?
  5. Si vuole dotare la polizia locale di maggiori poteri di intervento nel campo della sicurezza pubblica?
  6. L’Europa è destinata ad avvicinarsi sempre di più ai Paesi occidentali e non (si pensi ad alcuni Paesi asiatici) dove la sorveglianza tecnologica di massa è ormai è un dato acquisito e giudicato compatibile con il diritto e la giustizia?
  7. Davvero l’alternativa è tra produrre in proprio una tecnologia predittiva o acquistarla da altri?

Tali quesiti non possono essere risolti solo affidandosi a un’interpretazione più o meno sofisticata di regolamenti europei e leggi nazionali, ma attengono a scelte politiche che devono muoversi nel perimetro delle norme costituzionali poste a fondamento delle società europee democratiche. Il vagheggiato bilanciamento tra privacy (libertà) e sicurezza implica la responsabilità di dover scegliere qual è il piatto della bilancia che pesa di più.

A margine di un libro sulle immagini dei beni culturali

01.02.2024

R. Caso, A margine del volume “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?” a cura di Daniele Manacorda e Mirco Modolo, Pacini Editore, 2023, 01.02.2024, versione 2.0 Zenodo

I. In meno di duecento pagine, immagini incluse, il volume curato da Daniele Manacorda (archeologo) e Mirco Modolo (archeologo e archivista) offre una sintesi efficace dell’acceso dibattito sul regime giuridico delle immagini dei beni culturali. Il libro raccoglie gli atti di un convegno promosso dalla Fondazione Aglaia e svoltosi a Firenze il 12 giugno 2022.

In buona sostanza, si tratta di un manifesto multidisciplinare per la liberalizzazione delle immagini del patrimonio culturale. Lo si evince già dalla copyright notice che recita testualmente: “le immagini pubblicate in copertina e alle pp. […] sono soggette ai vincoli d’utilizzo propri delle riproduzioni di beni culturali pubblici di cui agli art. 107-108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, argomentatamente contestati in queste pagine […]”.

Insomma, i curatori non si ammantano di finta neutralità – un vizio in cui spesso cadono i giuristi – ed esplicitano subito le proprie convinzioni. Tuttavia, il volume offre anche prospettive differenti e dà conto sia nel testo sia nell’apparato bibliografico di chi argomenta contro la liberalizzazione delle immagini, a cominciare dagli esponenti della Società italiana per l’ingegneria culturale.

II. La trattazione, preceduta dalla premessa di Carolina Megale e dai saluti di Paolo Baldi, è divisa in tre parti: un’introduzione con i due capitoli dei curatori dell’opera, una seconda parte nella quale si offrono punti divista di studiosi con diverse competenze nei campi del diritto (Giorgio Resta), dell’economia (Massimo Fantini), della tutela-valorizzazione (Laura Moro) e della fruizione dei beni culturali (Grazia Semeraro, Andrea Brugnoli) e una terza e ultima parte che racchiude alcune esperienze maturate nel settore pubblico e privato (Daniele Malfitana, Antonina Mazzaglia, Martina Bagnoli, Beppe Moiso, Tommaso Montonati, Claudia Baroncini, Stefano Monti, Riccardo Falcinelli, Iolanda Pensa, Fabio Viola).

Nell’addendum al primo capitolo introduttivo Daniele Manacorda riferisce delle novità sopraggiunte successivamente allo svolgimento del convegno e in particolare dell’emanazione del d.m. dell’11 aprile 2023, n. 161, linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali del Ministero della Cultura. A tal proposito Manacorda rileva “con questo decreto si torna drammaticamente indietro nel tempo: viene anche ristabilito addirittura il pagamento per la riproduzione di immagini su riviste scientifiche, colpendo duramente i giovani in un settore assai delicato della loro crescita professionale”.

Il volume va letto in connessione con altri contributi che sono stati pubblicati di recente sul tema. Mi riferisco in particolare al numero 3 del 2023 della rivista Aedon in cui i curatori del libro dialogano con altri esperti e in particolare con alcuni cultori del diritto amministrativo nonché a un’intervista di Eleonora Landini al direttore del Museo Egizio Christian Greco apparsa con il titolo “La cittadinanza cresce al museo” sulla versione online della rivista Il Mulino in cui si parla anche dell’Open Access alle immagini dei beni culturali (un tema approfondito dal capitolo di Beppe Moiso e Tommaso Montonati proprio con riferimento all’esperienza della prestigiosa istituzione culturale torinese).

III. Leggendo le pagine di “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?” si comprende che il regime giuridico relativo alle immagini dei beni culturali è complesso e contradditorio. Complesso perché si pone all’incrocio di almeno quattro discipline: la proprietà intellettuale, i diritti della personalità, la tutela dei beni culturali, la disciplina dei dati aperti della pubblica amministrazione di derivazione europea. Complesso altresì perché attiene al bilanciamento diritti costituzionali che, senza una chiara visione di fondo, rischia di diventare un’inconcludente acrobazia ermeneutica. Complesso, infine, perché – come spiega il documentato e approfondito contributo di Mirco Modolo – l’attuale legislazione è frutto di una lunga e altalenante storia in cui le spinte alla liberalizzazione si sono dovute continuamente confrontare con controspinte tese ad alimentare le istanze proprietaristiche dello Stato. L’esito attuale con cui si confronta l’interprete è perciò un patchwork pasticciato, la cui prima vittima è la (mitica) coerenza dell’ordinamento giuridico.

Il regime giuridico è contradditorio perché non si comprendono appieno le ragioni che muovono contro la liberalizzazione delle immagini, legittimando un potere di controllo esclusivo dello Stato sulla riproduzione dei beni culturali. Si tratta di nutrire prospettive di guadagno da parte dello Stato che spera di poter metter in atto, anche non si sa come, una tutela globale del suo diritto? La commercializzazione delle immagini dei beni culturali dello Stato offrirebbe opportunità di rimpinguare le magre casse delle istituzioni culturali a dispetto di quanto anche di recente segnalato dalla Corte dei conti e rilevato in alcuni dei capitoli – in particolare quello a firma di Massimo Fantini – che toccano il tema? Oppure perché lo Stato si vuole riservare il potere di decidere chi e come può riprodurre i propri beni culturali vagliando la compatibilità dell’uso con la finalità (decoro) del bene? Non è solo lo spettro di un potere censorio, denunciato in particolare da Daniele Manacorda, a destare preoccupazione, ma anche lo sprezzo del ridicolo. Perché questo potere di valutazione apparterrebbe allo stesso Stato che ha varato di recente e per mano del Ministero del Turismo la campagna di promozione del Belpaese denominata “Open to Meraviglia” nell’ambito della quale la povera e (almeno in questo caso) davvero innocente Venere di Botticelli veniva trasfigurata in influencer, prima che questa figura professionale perdesse – almeno degli occhi dei diversamente giovani – un po’ del suo appeal per le note vicende attinenti a panettoni, bambole e (finta) beneficienza.

La contraddizione emerge con più evidenza proprio con riguardo ai casi portati davanti ai tribunali italiani dallo Stato riguardanti opere celeberrime come il David e l’Uomo Vitruviano ricostruiti in chiave sistemica e comparata dal lucido e incisivo contributo di Giorgio Resta. In questi casi, lo Stato ha agito contro la riproduzione non autorizzata per fini commerciali dei beni culturali da parte di imprese note e con forza commerciale (in parole brutali, ottimi pagatori). Ha agito per rivendicare l’incompatibilità con la finalità del bene culturale o per ottenere, a violazione avvenuta, un cospicuo risarcimento del danno da ottimi pagatori? Se le imprese con capienza economica interessate a utilizzare immagini di beni culturali dovessero mangiare la foglia e guardare ad altre e gratuite fonti come gli archivi delle decine di musei che all’estero praticano l’accesso aperto o, con riferimento alle immagini di beni culturali fuori dal controllo dello Stato italiano, a Wikipedia e Wikicommons al nostro Leviatano-azienda rimarrebbe con tutta probabilità solo la “clientela povera” che fa capo in gran parte all’editoria scientifica di nicchia (quella delle university press o delle case specializzate) e non ai grandi oligopoli come Elesevier, Springer-Nature e compagnia bella. Le prospettive di guadagno crollerebbero drammaticamente e in molti casi gli introiti si ridurrebbero a ciò che si incassa oggi tramite una partita di giro dei soldi pubblici, cioè dei contribuenti (ad es., nel caso in cui la casa editrice dell’Università pubblica X paga il museo statale Y per la riproduzione dell’immagine del bene Z). Se un problema relativo allo sfruttamento commerciale c’è, si colloca sul piano del ruolo che le Big Tech giocano nella gestione delle immagini, ma evidentemente non è un problema che può essere affrontato mediante derive proprietaristiche degli Stati.

IV. Prima di chiudere, occorre spendere qualche parola sui due maggiori problemi innescati dall’idea di un controllo esclusivo delle immagini dei beni culturali da parte dello Stato che si innesta sulla complessità e sulle contraddizioni sommariamente riassunte.

  1. La fine del pubblico dominio. Secondo la ricostruzione più corretta il pubblico dominio costituisce, in riferimento alle libertà fondamentali di informazione e di espressione del pensiero, la regola mentre i diritti di esclusiva costituiscono l’eccezione. Quando il legislatore disciplina i diritti di esclusiva pone necessariamente limiti di durata e di ampiezza all’esclusiva. Ad esempio, il diritto d’autore scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore e non copre le idee, copre solo la forma espressiva delle idee.  Tutta la proprietà intellettuale, intesa come macrocategoria che comprende diritti d’autore, brevetti per invenzione, marchi, disegni industriali, corrisponde a questo principio. Si tratta di un pilastro delle società democratiche che trova una declinazione, illustrata nel contributo di Resta, in un altro principio: il numero chiuso dei diritti di proprietà intellettuale. Solo il legislatore può, con le tecniche di bilanciamento tipiche del diritto privato, porre nuovi diritti di esclusiva. Non possono farlo i giudici, non possono farlo gli stessi legislatori ricorrendo, mediante il diritto pubblico, a forme camuffate e anomale di proprietà intellettuale (o pseudo-proprietà intellettuale).
  2. Il diritto liquido e la confusione totale. Chi scrive, da buon realista, non nutre nessuna nostalgia per una vagheggiata (e mai esistita) epoca d’oro in cui il diritto corrispondeva a un robusto, stabile e giusto “sistema”. Se stabilità esiste, molto spesso è quella imposta dai più forti ed è quindi fonte di ingiustizia. Nel caso del regime giuridico italiano delle immagini dei beni culturali non c’è stabilità, ma non c’è nemmeno evoluzione verso i modelli più avanzati come quelli olandese e americano, c’è solo molta confusione. Mentre buona parte del più recente dibattito si è concentrata sul d.m. 2023/161 contenente le linee guida per gli importi di canoni e concessioni, che è probabilmente una sorta di walking dead, il volto più inquietante del controllo esclusivo dello Stato è costituito dalla giurisprudenza creativa (e, appunto, confusa) dei Tribunali italiani in materia di immagine del bene culturale. A parere di alcuni giudici, il controllo esclusivo dello Stato troverebbe fondamento nel Codice dei beni culturali e nelle norme del Codice civile che proteggono l’immagine delle persone. Insomma, un esempio paradigmatico di distruzione del pubblico dominio e violazione del principio del numero chiuso dei diritti della proprietà intellettuale, mediante l’introduzione giurisprudenziale nell’ordinamento di una pseudo-proprietà intellettuale mascherata da diritto della personalità.

Inutile dire che i temi qui solo approssimativamente accennati sono trattati con maestria e passione in un libro di cui si consiglia vivamente la lettura e che ha un’unica pecca: quella di non essere pubblicato, per coerenza con il manifesto culturale che rappresenta, in Open Access (anche se i singoli testi che compongono il volume sono rilasciati con licenza CC-BY).

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Il mio nome è ANVUR: agente (dipendente) con licenza di valutare (numericamente)

Versione 2.0 – 07.02.2024. Versione 1.0 – 21.01.2024 (Zenodo: https://doi.org/10.5281/zenodo.10546644)

I. L’ Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) può essere considerata un’autorità indipendente dal potere esecutivo? I suoi membri esprimono libere idee scientifiche sulla valutazione od opinioni di funzionari amministrativi gerarchicamente sottoposti al potere esecutivo?

Alla prima domanda si deve rispondere in senso negativo: ANVUR non è un’autorità indipendente dal potere esecutivo, è piuttosto un’agenzia dipendente dal potere del Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR).

Al secondo quesito occorre rispondere che i funzionari dell’agenzia, quando esprimono idee sulla valutazione e sulla stessa agenzia, sono condizionati sia dalla natura dell’organizzazione sia dalle sue regole interne.

II. Per rispondere alla prima domanda occorre prendere le mosse dal dato normativo.

La legge istitutiva dell’ANVUR parla di “autonomia organizzativa, amministrativa e contabile” (art. 2, c. 138-141 del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 convertito con modificazioni nella l. 4 novembre 2006, n. 286, conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, recante disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria).

Ma se si leggono attentamente e per intero le norme rilevanti, la legge parla anche di nomina dei componenti dei componenti dell’organo direttivo (comma 140 del citato art. 2).

“Con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, sono disciplinati:
a) la struttura e il funzionamento dell’ANVUR, secondo principi di imparzialità, professionalità, trasparenza e pubblicità degli atti, e di autonomia organizzativa, amministrativa e contabile, anche in deroga alle disposizioni sulla contabilità generale dello Stato;
b) la nomina e la durata in carica dei componenti dell’organo direttivo, scelti anche tra qualificati esperti stranieri, e le relative indennità”.

Nel regolamento attuativo si è interpretata nel modo peggiore la delega di potere normativo. Vedi l’art. 8 c. 3 del d.p.r. 76 del 2010:

“3. I componenti del Consiglio direttivo sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro, sentite le competenti Commissioni parlamentari. Nel Consiglio direttivo devono comunque essere presenti almeno due uomini e almeno due donne. Ai fini della proposta, il Ministro sceglie i componenti in un elenco composto da non meno di dieci e non più di quindici persone definito da un comitato di selezione appositamente costituito con decreto del Ministro. […]”.

Dunque, i componenti del Consiglio direttivo sono riconducibili al Ministro dell’Università. Peraltro, come evidenziato da Maria Chiara Pievatolo nel recente volume “Perché la valutazione ha fallito. Per una nuova Università pubblica“, i membri del comitato di selezione “sono designati rispettivamente dal ministro, dal segretario generale dell’OCSE e dai presidenti dell’Accademia dei Lincei, dell’European Research Council e dal Consiglio nazionale degli studenti. Fra i designatori, l’unico ente elettivo è il Consiglio nazionale degli studenti […]”.

Senza entrare nel dibattito sulla natura di autorità ed agenzie indipendenti, si può sottolineare che questa struttura di governo, tra le tante possibili, è quella che assicura la dipendenza dell’agenzia dal Ministro.

Paradossalmente a sottolinearlo era, in tempi non sospetti, una fautrice della valutazione amministrativa di Stato. Così scriveva Fiorella Kostoris in un articolo intitolato “L’esperienza del CIVR e le prospettive dell’ANVUR nella valutazione della ricerca in Italia” pubblicato nella rivista Statistica & Società del 2008:

l’indipendenza dell’ANVUR è minata dalla mancanza di terzietà rispetto all’Esecutivo e dagli eccessi di controlli da parte dei vari stakeholders: tutti i 7 membri del suo Consiglio Direttivo sono, infatti, scelti direttamente o indirettamente dal Titolare del MUR e a lui o al suo Dicastero riportano, segnalano, propongono”.

Fiorella Kostoris è stata successivamente nominata componente del Consiglio direttivo dell’ANVUR, carica che ha ricoperto dal 2011 al 2015.

III. Ritorniamo ora al secondo quesito di partenza: i membri dell’ANVUR esprimono libere idee scientifiche sulla valutazione od opinioni di funzionari amministrativi gerarchicamente sottoposti al potere esecutivo? Anche per questa domanda si può fare riferimento al dato normativo.

La lettura dell’art. 5 del codice etico dell’ANVUR affronta il punto:

Nelle materie di competenza dell’Agenzia, i membri dell’Agenzia partecipano a convegni, seminari e simili, nonché pubblicano articoli su quotidiani o periodici solo quando la partecipazione o la pubblicazione avvengano nell’interesse dell’Agenzia. Tali attività sono comunicate al Presidente. Nelle materie estranee alla competenza dell’Agenzia, la partecipazione a convegni, seminari e simili, nonché la pubblicazione di articoli su quotidiani o periodici da parte dei membri dell’Agenzia sono libere. E’ altresì non vincolata qualunque pubblicazione a carattere scientifico, nel rispetto della libertà di manifestazione del pensiero da parte di ogni persona“.

La norma è ambigua. Ma non c’è dubbio sul fatto che essa radichi in capo all’agenzia un potere di controllo e di indirizzo sulle attività di pubblica manifestazione del pensiero dei propri membri nelle materie di competenza (cioè nella valutazione). Allora, quando il codice etico fa riferimento alla pubblicazione di carattere scientifico, cosa intende? Se un membro dell’ANVUR volesse pubblicare un articolo scientifico critico nei confronti dell’operato dell’agenzia si sentirebbe libero di farlo? Egli farebbe kantiamentente uso pubblico della ragione?

È lecito dubitare che la risposta alle ultime domande possa essere positiva. L’agenzia non gode né di indipendenza né di reale autonomia dal potere esecutivo. Tant’è che tutte le sue più importanti funzioni sono dirette normativamente dal Ministero. L’agenzia può muoversi solo nel perimetro normativo disegnato dal Ministero.

Beninteso, qui non si sta sostenendo che i membri dell’agenzia non possano esprimersi liberamente sulla valutazione. Anzi, si vuole sostenere esattamente il contrario. Tuttavia, la natura dell’agenzia e le sue regole condizionano la libertà di espressione del pensiero dei sui membri.

Fin qui tutto banale. Ma, venuto meno il timore nei confronti di un potere gerarchicamente sovraordinato, cosa spinge un ex membro a rimanere fedele al credo valutativo?

La ragione di questa inossidabile fedeltà è facile da spiegare. Il tentativo – destinato inesorabilmente a fallire – è quello di giustificare scientificamente un potere valutativo che è invece ontologicamente gerarchico, cioè si fonda, nella metafora usata da Maria Chiara Pievatolo, sulla spada e non sulla bilancia.

Perché si ha bisogno di questa giustificazione? Perché si vorrebbe far passare l’idea che, nell’ambito dell’università e della ricerca, decidere sulla base di indicatori garantisce oggettività e merito. Mentre si tratta soltanto di sostituire il governo democratico del diritto con la governance opaca e autoritaria dei numeri.

IV. Per concludere, le norme giuridiche ci dicono esplicitamente che l’ANVUR è un’agenzia dipendente dal Ministero con licenza di valutare numericamente al fine di decidere sulla distribuzione delle risorse e sullo sviluppo delle carriere di professori e ricercatori italiani.

Il problema dunque si sposta sull’autonomia delle università e sulla libertà scientifico-accademica garantite dell’art. 33 della Costituzione.

In che misura le università possono ancora dirsi autonome in un sistema di valutazione amministrativa di Stato come quello attualmente vigente? E i professori universitari possono dirsi ancora liberi?

La compressione dell’autonomia e della libertà non dipende solo dalle norme emanate dal MUR e dall’ANVUR, ma attiene agli anticorpi presenti nelle università.

Pochi esempi bastano a rendere l’idea. Se la disciplina della valutazione a livello di singolo ateneo si appiattisce su quella ministeriale e dell’agenzia, l’autonomia perde un altro pezzo. Se a livello di singola università si emanano regolamenti che sanzionano atti di protesta contro la valutazione amministrativa di Stato o pretendono di disciplinare il modo in cui i componenti della comunità accademica possono o non possono esprimersi sui mezzi di comunicazione di massa, la libertà di professori ne esce menomata, per non dire: azzerata.

Oggi si discute a livello europeo di riforma della valutazione della ricerca, ma questa discussione non può prescindere dalla disciplina giuridica del modo in cui si valuta, dalla distribuzione del potere valutativo e dalla natura di quest’ultimo. Insomma, non basta immaginare operazioni cosmetiche volte ad ammorbidire il peso degli indicatori. Una seria discussione deve prendere dalle mosse da due fondamentali domande.

1) Chi ha il potere di valutare?

2) Tale potere deriva da una gerarchia amministrativa o dalla ragione della scienza?

Sorveglianza artificiale, sicurezza urbana e privacy

Roberto Caso, 10 novembre 2023

By The poster art can or could be obtained from IMP Awards., Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=4411352

Pubblicato su L’Adige del 14 novembre 2023 con il titolo “Intelligenza artificiale. Dubbi e domande su Marvel e Protector

V. aggiornamenti qui e qui: Videosorveglianza e intelligenza artificiale. Il Garante privacy sanziona il Comune di Trento

Da un comunicato del 4 novembre del Comune di Trento, ripreso da vari organi di stampa, si apprende quanto segue:

“Il Garante per la protezione dei dati personali si è espresso (con nota datata 31.10.2023) sui progetti MARVEL e PROTECTOR di cui il Comune di Trento è partner assieme alla Fondazione Bruno Kessler. Si tratta di progetti di intelligenza artificiale per la sicurezza urbana finanziati dall’Unione Europea, che coinvolgono numerose realtà pubbliche e private di diversi paesi europei. […] Nella sua comunicazione il Garante indica […] delle violazioni: in particolare viene contestata la possibilità per il Comune di essere impegnato in attività di ricerca sulla materia e viene giudicata insufficiente la tecnica utilizzata per rendere anonime le persone”.

I progetti avevano già suscitato preoccupazioni e rilievi critici. Nella nota citata del Comune di Trento si riportano le parole di commento del sindaco Franco Ianeselli che suonano come una giustificazione:

“Ci atteniamo alle prescrizioni del Garante […] quando il Comune ha aderito a questo progetto lo ha fatto non certo con la volontà di sorvegliare le vite dei propri cittadini ma con lo scopo di usare le potenzialità della tecnologia per favorire la sicurezza in città. A questo serve la ricerca, a questo servono le sperimentazioni. Ci viene chiesto ogni giorno perché gli impianti di videosorveglianza servano solo ex post, quando un reato o un
incidente sono già avvenuti. Il tentativo è di sfruttarli per fornire alle forze
dell’ordine degli avvisi in tempo reale. Sicurezza e privacy in questo campo
devono necessariamente andare assieme e penso che avere un partner tecnologico come Fbk sia garanzia di riuscire a farlo”.

Sul sito del Garante privacy non risultano documenti pubblici sulla vicenda. In una fase ancora istruttoria si è aperta un’interlocuzione tra l’autorità di controllo della protezione dei dati personali e i soggetti coinvolti nei progetti (lo stesso Comune e la Fondazione Bruno Kessler o FBK).

Non esistendo ancora un provvedimento del Garante privacy, le uniche fonti di riferimento sono rappresentate dai siti web dei progetti europei, del Comune di Trento e di FBK.

In estrema sintesi, la disciplina europea per la protezione dei dati personali prescrive tra i requisiti per la liceità del trattamento dei dati personali un fondamento legittimo previsto dalla legge (il consenso della persona interessata o un’altra base giuridica). Inoltre, la persona deve essere informata dal titolare del trattamento dei suoi dati personali su una serie di aspetti del trattamento, a cominciare dalla sua finalità. Le informazioni da fornire alla persona sono contenute in un documento denominato nel gergo della materia “informativa”.

Dalla stringatissima informativa – neanche due pagine – disponibile sul sito web del comune si viene a sapere quanto segue.

Il fondamento legittimo per il trattamento non è il consenso delle persone interessate, ma l’esecuzione di un compito di interesse pubblico ai sensi dell’art. 6 del Regolamento europeo per la protezione dei dati personali 2016/679 (meglio noto nella prassi con l’acronimo inglese di GDPR) . La finalità è rappresentata esclusivamente dallo sviluppo dei progetti MARVEL e PROTECTOR.

Niente si dice sulla logica e sul funzionamento di algoritmi e software alla base dell’intelligenza artificiale applicata alla moltitudine dei dati audio e video delle persone interessate dalla sorveglianza di massa. La modalità del trattamento è riassunta in una frasetta di un paio di righe che lascia il cittadino completamente all’oscuro dei dettagli di questo trattamento massivo di dati personali.

Non è questa la sede per entrare nei dettagli giuridici di questa vicenda. Ci sarà tempo per farlo. Si possono però formulare alcune domande che meritano approfondimenti nelle prossime settimane.

a) A livello dell’Unione Europea ci si è posti il problema dell’impatto che tali progetti di sorveglianza di massa hanno sulla privacy e la libertà dei cittadini?

b) I progetti partiti nel 2021 sono destinati a terminare a breve. Un eventuale provvedimento del Garante privacy che arrivi a cose fatte può dirsi efficace? Nel caso in cui si riscontrassero violazioni della legge, un’eventuale sanzione pecuniaria avrebbe la deterrenza sufficiente ad evitare il rischio che analoghe violazioni si ripetano in futuro?

c) Può l’obbligo di informare la massa di persone interessate dalla sorveglianza urbana basarsi su un documentino disponibile sulla pagina web di un Comune?

d) Sul piano politico (e non giuridico) la scelta di avviare questo tipo di progetto di sorveglianza di massa può essere giustificata dal fatto di ricevere quotidiane sollecitazioni ad usare la tecnologia in chiave preventiva?

Quest’ultimo quesito richiama alla mente il visionario racconto distopico intitolato “Minority report” che Philip Kindred Dick scrisse negli anni ’50. Nel mondo cupo e inquietante immaginato da Dick ha preso piede la teoria del “precrimine”, un sistema predittivo che si basa sul rapporto di tre esseri mutanti “i precog” in grado di prevedere in anticipo il crimine che sarà commesso. Ogni pregog produce un rapporto. I tre rapporti sono analizzati da un computer che determina se c’è un rapporto di maggioranza, cioè se almeno due predizioni del crimine futuro sono sovrapponibili e sostanzialmente coincidenti. Tale capacità predittiva ha consentito l’abolizione del sistema post-crimine basato su sanzioni e prigioni. Ma si fonda su predizioni imperfette: quando esiste un rapporto di maggioranza ne esiste ineluttabilmente uno di minoranza.

Nelle prime pagine del racconto uno dei protagonisti pronuncia la seguente frase: “Lei ha probabilmente afferrato qual è il fondamentale difetto della metodologia precrimine dal punto di vista legale. Noi arrestiamo individui che non hanno infranto nessuna legge” [P.K. Dick, Rapporto di minoranza, trad. it. di P. Prezzavento, Fanucci editore, 2002, p. 29].

Chissà se l’intelligenza artificiale dei progetti MARVEL e PROTECTOR produce rapporti di minoranza. Sarebbe interessante saperlo, anche se a cose fatte.

La scienza dell’Upside Down (e la libertà perduta)

Roberto Caso, Note a margine dei primi otto anni di vita dell’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) – 17 ottobre 2023

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I. L’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) è nata con una conferenza tenutasi a Roma presso La Sapienza grazie all’organizzazione e all’ospitalità di Giovanni Destro Bisol e Paolo Anagnostou nel marzo del 2015. Nell’ottobre dello stesso anno si tenne, grazie al coordinamento di Maria Chiara Pievatolo, il primo convegno annuale presso l’Università di Pisa. Pisa è luogo simbolico. Uno degli atti fondativi della scienza moderna come scienza pubblica, non segreta, è nella scelta di Galileo Galilei di dare alle stampe il Sidereus Nuncius, una scelta che il grande pisano compì con l’intenzione di raggiungere il maggior numero possibile di lettori.

I soci fondatori vollero scrivere uno statuto che rispecchiasse l’idea della scienza come comunità umana autonoma, libera, democratica che dialoga in pubblico con le tecnologie della parola. L’associazione non solo promuove la scienza aperta, ma opera in base ai suoi valori e principi. Ciò spiega perché tutta la documentazione fondamentale è pubblica e accessibile sul web e perché le cariche direttive non possono essere a vita, ma hanno durata limitata. In particolare, gli articoli 5 e 6 dello statuto prevedono che membri del consiglio e presidente non possono essere rieletti consecutivamente per più di una volta. In altri termini, la carica non può durare più di otto anni consecutivi.

Ho avuto l’onore di essere stato eletto presidente a Roma nel 2015 e rieletto per il secondo mandato nel convegno annuale di Udine del novembre del 2019. Ora, nell’ottobre del 2023, in occcasione dell’ottavo convegno annuale presso l’Università di Bari, cedo il testimone alla prossima presidenza.

Ci tengo a ringraziare a tutti i soci, il primo e il secondo consiglio direttivo e tutte le persone che hanno collaborato con l’AISA pur non facendone parte, a cominciare dalle relatrici e dai relatori che hanno partecipato alle tante iniziative convegnistiche e seminariali dell’associazione. Ci tengo a ringraziare anche i soci che non sono più con noi e ci mancano molto: Pietro Greco e Paolo Anagnostou.

Oggi l’associazione è un po’ più grande (o un po’ meno piccola) del nucleo iniziale del 2015, gode di buona salute finanziaria ed ha qualche eco in Italia e all’estero. Ma il lavoro da svolgere per promuovere la scienza aperta in Italia resta enorme. Pur lasciando la presidenza, continuerò – se l’AISA lo vorrà e lo riterrà utile – a dedicare tempo ed energie alla vita e all’attività associative.

Viviamo, com’è noto, un’epoca “difficile” per l’umanità. La scienza non è immune dai problemi che affliggono gli esseri umani e il mondo che (temporaneamente) abitano.

II. Per provare a spiegare alcuni aspetti di questi problemi userò un esperimento mentale che si basa una metafora cinematografica familiare anche ai più giovani.

Immaginiamo che esista un mondo parallelo alla scienza umana, una sorta di Upside Down. Un Sottosopra tenebroso, cupo, corrotto, popolato da creature mostruose prive di libertà che rispondono agli ordini di un malefico essere superiore (Mind Flyer).

In questa realtà parallela a quella umana, la scienza non risponde ad argomenti discutibili e falsificabili, ma a numeri. La comunità scientifica non si organizza secondo norme etiche, ma viene governata dai numeri riferibili a “prodotti“. Ad esempio, la valutazione della ricerca, per le più svariate finalità, si basa essenzialmente su indicatori, algoritmi e metriche. I fondi per il finanziamento della ricerca di base e la progressione di carriera dei ricercatori vengono distribuiti partecipando a una competizione feroce e senza esclusione di colpi (anche scorretti) che si gioca con misure quantitative. Questa competizione sembra assomigliare più a una guerra che a una gara sportiva. Non è un caso che in questa dimensione orrorifica si sia diffuso un motto: pubblica o (scientificamente) muori. Pubblica qualsiasi cosa anche poco o per niente originale, purché faccia numero. Pubblica e paga – se “necessario” – o muori.

Ad una prima occhiata superficiale questo sistema ha i suoi punti forti. Le decisioni si prendono rapidamente, senza troppe e lunghe discussioni pubbliche, facendo riferimento a misure (apparentemente) oggettive. Si producono classifiche di ogni tipo che orientano le decisioni di tutti. Si premiano i vincitori con denaro e medaglie di merito (la cosiddetta  eccellenza).

Cosa c’è di più scientifico dei numeri? Se i numeri sono il linguaggio della scienza, perché non dovrebbero essere strumenti di governo e decisione della comunità degli scienziati?

La risposta a queste domande non è scontata, almeno dal punto di vista della scienza (umana) moderna.

I numeri della valutazione non sono nella disponibilità delle creature inferiori del Sottosopra, ma sono chiuse in poche piattaforme di analisi dei dati protette da proprietà intellettuale, misure tecnologiche e prezzo del contratto di abbonamento. Le creature, costantemente sorvegliate, devono pagare, con denaro (se possono permetterselo) e dati personali, il calcolo dei numeri valutativi da parte delle banche dati oligopolistiche. Le creature non possono replicare i calcoli effettuati dalle banche dati. Le creature non sono uguali: ci sono valutati e valutatori. I valutatori sono creature più mostruose delle altre e sono armate di spade magiche. Le spade magiche traggono il proprio potere offensivo direttamente dall’essere superiore malefico che sorveglia, valuta e punisce. Ai valutati che pensano di subire giudizi ingiusti non rimane che rivolgersi, tramite gli Avvocati Mostruosi Amministrativisti (AMM), al Tribunale Mostruoso del Sottosopra (TMS) ed eventualmente, in ultima istanza, al Consiglio Mostruoso del Sottosopra (CMS).

La conoscenza prodotta dalle creature mostruose (valutati e valutatori) viene protetta da proprietà intellettuale e ceduta ai “monopoli intellettuali” che nel mondo gerarchico del Sottosopra sono mostri di maggiori dimensioni, più voraci e aggressivi che si collocano sul gradino immediatamente inferiore a quello dove siede l’essere malefico superiore. I monopoli intellettuali hanno il controllo delle infrastrutture tecnologiche e dei dati. Persino se si tratta di conoscenza che salva la vita delle creature essa viene protetta da brevetti destinati ad essere ceduti ai monopoli intellettuali. Una parte della popolazione che vive nelle zone più povere del Sottosopra sarà per questo condannata a morire, ma tale esito fatale in un mondo mostruoso non interessa alle creature più ricche e fortunate.

Per quanto prive di libertà le creature mostruose biologiche del Sottosopra trovano nel servire il capo e nello scalare la gerarchia della mostruosità la ragione della propria esistenza (scientifica o commerciale), ma non sanno che l’essere malefico progetta il loro annientamento e la loro sostituzione con macchine non biologiche che si cibano di grandi quantità di dati. Tali macchine chiamate Intelligenza Mostruosa (IM) promettono, dopo un bagno nell’etica di facciata, di fare a meno della teoria e di generare ragionamenti scientifici “migliori” delle creature mostruose biologiche.

La scienza dell’Upside Down è mostruosa perché rappresenta una perversione della scienza umana moderna. Quest’ultima emula i meccanismi di governo di una società democratica nella quale la conoscenza costituisce un bene comune inappropriabile, l’uomo di scienza, anche quando appartenente a un’istituzione, fa uso pubblico della ragione e la legittimazione a criticare gli altri uomini di scienza non deriva da un potere politico, amministrativo o economico ma dallo studio.

Insomma, la scienza del Sottosopra non ha niente di scientifico. Le sue apparenti virtù – traduzioni di argomenti in numeri, rapidità e indiscutibilità delle decisioni, accentramento e verticalizzazione dell’organizzazione della ricerca, proprietà intellettuale – non sono altro che manifestazioni di un potere politico ed economico autoritario.

Immaginiamo alla fine di questo esperimento mentale che la scienza del mondo del Sottosopra sia riuscita ad aprire un portale sul mondo degli uomini e abbia incominciato ad avvelenare la scienza umana. Abbiamo bisogno di un altro eroe (o di un altro supereroe) per salvare la scienza degli uomini? Nella serie TV a cui si ispira questo esperimento mentale non sono eroi a salvare il mondo, ma un piccolo gruppo di adolescenti dotati solo di solidarietà, fantasia e ingenuità.

Morale: per lasciare un’eredità alle nuove generazioni e (provare a) cambiare (in meglio) il mondo in cui gli scienziati lavorano non occorrono eroi, ma insegnanti e studenti disposti a impegnarsi a esplorare strade alternative.

III. In questi otto anni l’AISA ha provato a tener vivo il dibattito italiano sulla scienza aperta e a discutere pubblicamente qualche proposta su come cambiare il sistema.

La formulazione delle proposte nasce da una visione scientifica della realtà che non accetta l’assioma in base al quale non c’è un’alternativa (TINA). Nel progresso della conoscenza come nella politica esistono sempre alternative in attesa di essere esplorate e sperimentate.

Per dare un’idea delle proposte dell’AISA mi limito ad alcuni esempi che riguardano le quattro sessioni in cui è articolato l’ottavo convegno annuale dell’associazione: a) valutazione; b) monopoli intellettuali; c) infrastrutture; d) formazione.

a) Valutazione. Non si può discutere di valutazione senza interrogarsi sull’autonomia e sulla libertà di valutatori e valutati (v. qui, qui, qui, qui e qui). In Italia la valutazione amministrativa di Stato è espressione del potere esecutivo. La legittimazione di questo potere non viene dalla scienza ma da un potere (il Governo) dello Stato sorvegliato dal giudice amministrativo. Che il potere esecutivo abbia un ruolo così rilevante nel sistema della ricerca è una questione giuridica che va analizzata alla luce degli art. 21 e 33 della Costituzione italiana nonché degli art. 11 e 13 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Oggi in Europa si discute di riforma della valutazione della ricerca, ma questa discussione non può prescindere dal diritto e dalle leggi che determinano ruoli e poteri dei valutatori. Non è solo questione di come si valuta, ma anche e soprattutto di chi ha il potere di farlo e con quali strumenti giuridici. La formalizzazione giuridica dei processi e delle regole della valutazione ha un impatto profondo sulle norme sociali della scienza. Tale impatto merita di essere studiato attentamente.

b) Proprietà intellettuale e monopoli intellettuali. Qual è il ruolo della scienza che non opera (o non dovrebbe operare) per il profitto? A quali principi deve rispondere il rapporto tra università e mercato? Ad es. l’università come deve relazionarsi alle imprese editoriali e di analisi dei dati della valutazione della ricerca o alle imprese farmaceutiche? Quando tali imprese hanno potere monopolistico, a quali politiche l’università deve rispondere? A queste domande AISA ha provato a rispondere non solo organizzando occasioni di dibattito pubblico (v., ad es., qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui), e prendendo posizione pubblica nei processi di normazione (v. qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui), ma anche avanzando proposte di cambiamento del sistema. Mi riferisco alla proposta di modifica della legge italiana sul diritto d’autore volta a istituire un nuovo diritto di ripubblicazione in accesso aperto delle opere scientifiche (Secondary Publication Right) e alla proposta di vaccino aperto, cioè libero da proprietà intellettuale.

c) Infrastrutture tecnologiche. Se anche tutta la scienza fosse libera da proprietà intellettuale, si porrebbe il problema di chi ha il controllo delle infrastrutture tecnologiche e il potere computazionale per processare dati e informazioni. A maggior ragione il problema si pone in un mondo in cui i monopoli intellettuali associano il potere giuridico della proprietà intellettuale a quello di fatto che deriva dal controllo delle infrastrutture. Per questa ragione l’AISA non solo ha voluto porre in esponente il dibattito sulle infrastrutture tecnologiche, ma ha anche voluto testimoniare che esistono alternative – in Italia il GARR (v. qui e qui) – all’uso delle piattaforme che fanno capo ai monopoli intellettuali.

d) Formazione. Se c’è una possibilità di cambiare (in meglio) il sistema sta nella formazione, cioè nell’insegnamento. Si tratta, invero, del tema più importante. Senza insegnare alle nuove generazioni nelle scuole e nelle università cosa è la scienza aperta e come praticarla, il mondo del Sottosopra è destinato a prendere il sopravvento.

IV. L’ottavo convegno annuale dell’AISA cade, purtroppo, in un periodo storico molto difficile in cui la guerra ha occupato la quotidianità degli uomini. Non è inopportuno richiamare il nesso che esiste tra la scienza aperta e la pace. Chiudo, perciò, riproducendo le parole che Maria Chiara Pievatolo ha scritto poco tempo fa a nome dell’AISA.

“Se s’intende la scienza aperta come un metodo d’indagine e di discussione fondato sulla libertà dell’uso pubblico della ragione e non come un adempimento amministrativo, è difficile immaginarla compatibile sia con la ricerca direttamente finalizzata a scopi bellici, sia con il suo indiretto asservimento alla potenza degli stati armati per la guerra. Se infatti riconoscessimo che la guerra è un modo legittimo di risolvere le controversie internazionali e non solo una triste necessità da superare al più presto, dovremmo ammettere, contro la ricerca della verità, un uso legittimo della menzogna propagandistica, e, contro il perseguimento di composizioni dei conflitti che pongano fine alla violenza, un appello legittimo alla legge del più forte. Fra la libertà della ricerca e la pace come impegno comune alla costruzione di un confronto non violento c’è dunque un nesso non accidentale, sia per il metodo dell’indagine, sia per l’interesse dell’umanità alla sopravvivenza e all’emancipazione. Come associazione per la promozione della scienza aperta ci proponiamo di approfondire questo tema aggiungendolo fra gli argomenti delle nostre iniziative future”.

Libertà di ricerca e profitto

Roberto Caso, 24 settembre 2023, pubblicato su L’Adige del 26 settembre 2023 con il titolo “Il ruolo della ricerca libera dal profitto

https://it.wikipedia.org/wiki/The_Dark_Side_of_the_Moon#/media/File:Optical-dispersion.png – Vilisvir – Opera propria – CC BY-SA 3.0

La professoressa e senatrice a vita Elena Cattaneo ha tenuto a Trento il 18 settembre scorso presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo tridentino un’interessante lezione sulla libertà di ricerca. Ho avuto l’opportunità di assistere personalmente alla lezione.

Il discorso era rivolto soprattutto ai giovani che aspirano a coltivare la ricerca scientifica. Il messaggio di fondo può essere sintetizzato nella seguente esortazione [le parole scelte sono mie]: “osate, battete strade inesplorate e resistete alle forze che cercano di comprimere la vostra libertà”.

Elena Cattaneo ha portato molti esempi di persone che hanno abbracciato il coraggio della ricerca. Giustamente, nella carrellata di queste figure, sono state privilegiate le donne. Tali ricercatrici, infatti, hanno dovuto aggiungere una dose di coraggio supplementare – sfidare la società maschilista – a quello fondamentale che alimenta la libertà scientifica.

La senatrice è partita da Rita Levi-Montalcini per giungere alle proprie battaglie sulla legge 40/2004 in materia di procreazione medicalmente assistita, sul caso “Stamina” e sull’istituzione dello Human Technopole. Sono battaglie, quelle della senatrice Cattaneo, che riguardano, da diverse prospettive, la difesa della libertà di ricerca nei confronti dello Stato. In estrema e approssimativa sintesi, lo Stato: non deve arbitrariamente restringere l’uso di cellule di embrioni umani (sovrannumerati e congelati, destinati alla distruzione) a fini di ricerca, deve intervenire attivamente contro la pseudo-scienza e quando istituisce enti finanziati con ingenti finanziamenti pubblici (distolti da altri usi e destinatari) deve garantire che siano governati da strutture, procedure e regole che evitino il malaffare.

Nella rassegna delle donne che hanno speso la vita per la ricerca scientifica Elena Cattaneo ha citato Katalin Karikó. Confesso che prima della lezione della senatrice non l’avevo sentita nominare. Ho appreso che è una biochimica ungherese esperta nello studio dell’mRNA a scopo terapeutico. Soprattutto è una delle figure chiave di BionTech, l’azienda farmaceutica tedesca che ha sviluppato insieme a Pfizer, la big pharma statunitense, il Comirnaty, uno dei vaccini anti-COVID-19 a base mRNA più diffusi in Occidente.

Devo confessare che l’esempio mi ha sorpreso. Non solo perché veniva poco dopo quello di Levi Montalcini, ma perché riguarda una ricercatrice che ha scelto di lavorare per un’azienda che difende con la proprietà intellettuale – brevetto, segreto commerciale – una scoperta scientifica di importanza fondamentale per tutta l’umanità e non solo per l’Occidente. Su quella proprietà intellettuale è stato generato un profitto miliardario. Ma la decisione che il vaccino BionTech/Pfizer abbia un prezzo, comporta che una parte dell’umanità ne sia fatalmente esclusa. Insomma, è giusto dare un prezzo monopolistico a un bene essenziale per salvare la vita delle persone? La domanda non è oziosa e se la sono posta in molti. Ma c’è un altro quesito che va formulato. È giusto difendere con proprietà intellettuale un’invenzione che si fonda sulla ricerca di base finanziata con fondi pubblici? La tecnologia mRNA è stata sviluppata grazie a ricerche svolte in istituti pubblici e università. Il contributo dato dall’impresa commerciale deve tradursi nella concessione di un monopolio legale (la proprietà intellettuale) che dà il pieno e totale controllo sull’uso dell’invenzione?

Esistono figure diverse da Katalin Karikó che potevano essere citate. Sono figure che interpretano la libertà di ricerca anche come difesa dalle ragioni del profitto. Ad esempio, Maria Elena Bottazzi, la ricercatrice di origini italiane, che ha scelto di non brevettare il Corbevax, vaccino anti-COVID-19 sviluppato assieme a Peter Hotez. Per questa scelta è stata candidata al premio Nobel per la pace.

Che la questione della libertà di ricerca dai condizionamenti del profitto sia di assoluta rilevanza in campo farmacologico è testimoniato dalla politica anti-brevettuale dell’Istituto Mario Negri, una delle più prestigiose istituzioni scientifiche italiane. “Da oltre 50 anni l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, in controtendenza con l’idea dominante, non richiede brevetti sulle proprie ricerche. Non perché siamo contrari in linea teorica ai brevetti in campo medico […]. Lo facciamo soprattutto per essere liberi. Liberi nell’orientamento e nella selezione dei temi di ricerca. Se invece l’obiettivo fosse il brevetto e il suo sfruttamento, sarebbe inevitabile orientarsi verso ricerche economicamente sfruttabili”. Silvio Garattini, presidente dell’Istituto Negri, è tornato di recente sul tema in un libro-intervista edito da Il Mulino (Brevettare la salute? Una medicina senza mercato, 2022).

Il bel messaggio lanciato dalla senatrice Cattaneo – osate e battete strade inesplorate! – non vale solo per la biologia ma anche per le scienze umane e sociali. Vale per il diritto – come la proprietà intellettuale – che governa i rapporti tra scienza e profitto. Forse la strada battuta fino ad adesso e persino durante la pandemia non è l’unica e nemmeno la più giusta. Occorre urgentemente e con coraggio esplorarne altre.

The Italian pseudo-intellectual property and the end of public domain

Roberto Caso, June 15, Kluwer Copyright Blog

Daniele da Volterra (Daniele Ricciarelli) (Italian, Volterra 1509–1566 Rome).Michelangelo Buonarroti (1475–1564), probably ca. 1544.Oil on wood; 34 3/4 x 25 1/4 in. (88.3 x 64.1 cm).The Metropolitan Museum of Art, New York, Gift of Clarence Dillon, 1977 (1977.384.1).http://www.metmuseum.org/Collections/search-the-collections/436771

Roberto Caso, Michelangelo’s David and cultural heritage images. The Italian pseudo-intellectual property and the end of public domain, Kluwer Copyright Blog, June 15, 2023

Copyright vs parody: the fair balance doctrine in front of the Italian Supreme Court

29.03.2023

Niklas Jansson, Public domain, via Wikimedia Commons

Roberto Caso, Copyright vs parody: the fair balance doctrine in front of the Italian Supreme Court, Kluwer Copyright Blog, 29.o3.2023

On 30 December 2022, the Italian Supreme Court (Corte di Cassazione) issued an order that intervened again on the interpretation of the quotation exception under Article 70 of the Italian Copyright Act (l. 633/1941, l.aut.). The decision concerns an advertising campaign of a mineral water company. The commercial video promoting the mineral water features a humorous version of the Zorro character created by Johnston McCulley in 1919, but itself inspired by earlier literary figures such as Robin Hood and the Scarlet Pimpernel as well as, according to some speculation, Joaquin Murrieta, a California outlaw who lived in the 1800s. The company that owns the copyright on the Zorro character sued the mineral water company for copyright infringement.

The ruling of the order is the following:

“Parody must respect a fair balance between, on the one hand, the intellectual property right of the copyright holder on the work and, on the other hand, the freedom of expression of the author of the parody; in this sense, the reproduction of protected work may be justified within the limits inherent in the parodistic purpose and provided that the parody does not prejudice the interests of the owner of the original work, as is the case when it competes with the economic use of original work”.

Italian copyright law and parody

Italy has chosen not to introduce an ad hoc exception on parody in its copyright law, even when it could have proceeded so on the basis of InfoSoc Directive. Today, Italian law, following the implementation of Art. 17 (7) Copyright Directive 2019/790 (CDSMD), explicitly names exceptions and limitations for the purpose of caricature, parody and pastiche in Art. 102-nonies (2) l.aut., but this provision is specifically aimed at protecting the freedom of expression of Internet users when they upload and make available content they generate through online content-sharing service providers. In other words, it is not a general exception on parody.

Towards the Italian fair balance doctrine?

The case decided by the Corte di Cassazione provides an opportunity to reformulate the legal principle of prevalence of freedom of parody over copyright in the terms used by the Court of ustice of the EU (CJEU). The (magic) formula is the “fair balance between fundamental rights”. In the lexicon of the EU Charter of Fundamental Rights (CRF), this is the balance between intellectual property (Article 17(2)) and freedom of expression and information (Article 11).

In short, the EU-style fair balance doctrine officially becomes part of the interpretive and argumentative techniques of the Italian Supreme Court.

But there are some open issues.

a) What is the relationship between the CRF and the Italian Constitution in the field of copyright?

b) The CJEU coined and used the fair balance formula to give itself the power to conform with European copyright law. In the arguments of the Corte di Cassazione, is the formula destined to assume real weight in the outcomes of the next decisions?

c) In the CJEU’s case law, the fair balance doctrine has served to give flexibility to the interpretation of exceptions and limitations, otherwise condemned to the narrow spaces of restrictive literal interpretation. In judging the permissibility of parody, the Court must respect a fair balance between fundamental rights. If the message contained in the parody has discriminatory content, the Court must consider the author’s interest in not having his work associated with the discriminatory message (Deckmyn, C-201/13). Is the Corte di Cassazione willing to follow the CJEU on this path?

d) Is the fair balance doctrine destinated to become a kind of Euro-Italian fair use in disguise? The question is relevant because many are calling for the inclusion of an open-ended clause in the European regulatory framework, as for instance suggested by reCreating Europe’s project policy recommendations.

The devil – as always – is in the details. The prevalence of the right to parody is only tendential, as copyright wins again when the parodic work competes with the economic use of the original work. This ruling of the Corte di Cassazione is not fully convincing  for two reasons.

(i) The criterion based on the competition with the economic use of the work is slippery. On the one hand, the sophisticated techniques of antitrust law aimed at defining the boundaries of the relevant market have no place in copyright law. On the other hand, imitation or reproduction for parodistic reason is not always a source of taking away the profits of the original work; on the contrary, it can produce the opposite effect, multiplying fame and revenues.

(ii) The fair balance test in this way weighs in favor of the intellectual property at the expense of the freedom of expression. This reasoning reflects a one-dimensional (economic) view of copyright, while the same is historically, philosophically, and positively multidimensional, because it is precisely closely related to freedom of expression and information.

Quotation or transformative use of unprotectable ideas?

A final remark. The formulation of a legal problem is never a neutral act since, in reflecting the political and ideological beliefs of the interpreter, it guides the solution. The case submitted to the Corte di Cassazione was formulated in terms of a quotation exception. But the problem could be formulated not with reference to the quotation exception, but to the principles of creativity and the dichotomy idea/expression.

Several arguments move in this direction. The protection of Zorro is invoked not in relation to a complex work, but a character inspired by other historical precedents. Assuming that the identifying and figurative elements of the character (the name Zorro, the blackness of the clothes, the mask, the hat and the sword) are creative contents, these elements are relocated in a humorous context that undoubtedly determines a new semantic meaning. They take in the autonomous parodic work a “transformative” meaning that they do not have in the original work. Such creative elements, if evaluated in the comparative analysis between parodied and parodistic work, lose their original character and end up becoming ideas, data, facts.

This way of reasoning has the advantage of looking not at the formal distinction between idea and expression (which is always difficult to govern), but at the purpose of a work that draws inspiration from one or more previous works while modifying their meanings. This advantage is evident, for example, in disputes over contemporary art, which is known to be more focused on ideas than expressions.

The purpose of copyright law is not only to create a market for intellectual works but also to ensure freedom of expression and information. This freedom fosters, in a democratic society, the dialogue between authors and the public, the development of a plural, diverse and inclusive culture as well as the fulfillment of the social function of the exclusive right and its limits. In this perspective, the analysis of the parody-copyright conflict cannot be trapped in a criterion based on formal parameters (the abstract distinction between idea and expression) or merely economic ones (competition with the economic use of the original work) that disregard the purpose of the parody.

Il diritto d’autore e la parodia dietro la maschera di Zorro

10 marzo 2023

R. Caso, Il diritto d’autore e la parodia dietro la maschera di Zorro. Duellando (in Cassazione) tra esclusiva e libertà sul giusto (e instabile) equilibrio tra diritti fondamentali (nota a Cass. Sez. I civile ord. 30 dicembre 2022 n. 38165, in corso di pubblicazione in Il Foro italiano), disponibile in Open Access su Zenodo; DOI: https://doi.org/10.5281/zenodo.7715047

Abstract: La controversia oggetto di Cass. Sez. I civile ord. 30 dicembre 2022 n. 38165 riguarda una campagna pubblicitaria di un’impresa produttrice di acque minerali. Lo spot di un’acqua minerale vede come protagonista una versione umoristica del personaggio di Zorro creato da Johnston McCulley nel 1919, ma a sua volta presumibilmente ispirato a precedenti figure letterarie (come Robin Hood e la Primula Rossa) nonché, secondo alcune ipotesi, a Joaquin Murrieta, un fuorilegge californiano vissuto nell’800. L’impresa titolare del copyright sul personaggio Zorro fa causa all’impresa produttrice di acqua minerale per plagio-contraffazione. Il caso offre alla Cassazione l’occasione per riformulare il principio giuridico di tendenziale prevalenza della libertà di parodia sul diritto d’autore nei termini utilizzati dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea. La formula (magica) è quella del «giusto equilibrio tra diritti fondamentali». Nel lessico della Carta di Nizza si tratta del bilanciamento tra proprietà intellettuale (art. 17.2) e libertà di espressione e informazione (art. 11).

A liberal infrastructure in a neoliberal world: the Italian case of GARR

23 gennaio 2023: pubblicato su Zenodo il preprint di un articolo di Roberto Caso e Maria Chiara Pievatolo sull’esperienza italiana di GARR Meet

R. Caso, M.C. Pievatolo, A liberal infrastructure in a neoliberal world: the Italian case of GARR, forthcoming in Journal of Intellectual Property, Information Technology and Electronic Commerce, Zenodo, <https://doi.org/10.5281/zenodo.7561821>

This paper aims to outline some issues concerning the interaction, in the European Union law, between data policy, university regulation, open science, intellectual property and infrastructure policy. On the one hand, such issues primarily regard intellectual property: exclusive rights deriving from copyright and related rights, patent, trademarks, trade secrets. On the other hand, they also concern forms of exclusive control on data that are not strictly related to intellectual property, but enhanced by the control on technology and infrastructure. This exclusive control can accompany or be independent from the protection of intellectual property conferred by law.

To make science open and to limit the market power of intellectual monopolies and oligopolies, restricting and reshaping intellectual property rights on data is not enough. It is also necessary to create or to revive public infrastructures and to implement open standards for texts, data and code. An example of public infrastructure for university is the Italian consortium GARR, which during the Covid-19 pandemic contributed to anchor the local debate about academic and teaching freedom to an actual and viable alternative, protecting independent and public knowledge not just de iure but de facto as well”.

I brevetti universitari in campo biomedico e farmacologico: un modello da ripensare?

Roberto Caso

6 dicembre 2022, pubblicato su Alto Adige, 9 dicembre 2022

Il 5 dicembre 2022 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo trentino si è discusso del libro-intervista “Brevettare la salute? Una medicina senza mercato” di Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS, curato per Il Mulino dalla giornalista scientifica Caterina Visco. Il seminario è stato organizzato dal prof. Marco Pertile dell’Università di Trento e ha visto la partecipazione, oltre che di Silvio Garattini, di diversi accademici provenienti da differenti aree scientifiche.

La tesi di fondo di Silvio Garattini è netta: “l’introduzione del brevetto sui farmaci, in Italia [dal 1978] e nel mondo, non si è rivelata sinonimo di innovazione e progresso, e anzi ha portato a conseguenze negative” (p. 11).

Nonostante la brevettabilità dei farmaci in tre anni di pandemia di Covid-19 l’Italia non è stata capace di produrre un proprio vaccino, e nel mondo solo la parte più ricca della popolazione ha avuto accesso ai vaccini.

Scrive in proposito Garattini “[…] le aziende proprietarie dei vaccini brevettati si sono limitate a produrre le dosi commercializzabili, acquistabili e acquistate spesso con anticipo, sorde – e con loro molti Paesi ad alto reddito – alle richieste, provenienti da più voci, di rinunciare temporaneamente alla proprietà intellettuale per permettere ad altre industrie di produrre i miliardi di dosi necessarie per vaccinare il resto del mondo” (p. 123-124).

Come sostiene persuasivamente il presidente dell’Istituto Mario Negri, l’attuale pandemia è solo un esempio, sebbene macroscopico, di un problema generale: la commistione tra le ragioni del profitto e quelle della scienza nonché della tutela della salute e della vita.

Garattini immagina un sistema di prevenzione delle malattie e della salute che prescinda del tutto dalla proprietà intellettuale e dal profitto. Ma pragmaticamente immagina anche un percorso graduale per giungere al nuovo sistema. Occorrerebbe procedere per intanto a una riforma dell’attuale meccanismo di proprietà intellettuale sui farmaci (p. 124-125).

a) Si ritiene utile non brevettare i marchi dei farmaci per permettere la commercializzazione con il solo nome generico.

b) Si dovrebbe evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.

c) Il brevetto dovrebbe essere garantito solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto ai prodotti già esistenti.

d) Questo dovrebbe essere dimostrato attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.

e) Se il nuovo farmaco fosse migliore dovrebbe essere abolito il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.

f) Infine, dovrebbe essere impossibile brevettare prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.

La riforma della proprietà intellettuale sarebbe di per sé non sufficiente, occorrerebbe trovare “altri motori [non profit] per l’innovazione in campo medico e farmaceutico” (p. 125).

Non si tratta di dichiarazioni di principio, ma di quanto l’Istituto Mario Negri mette in pratica.

Infatti, sul sito web dell’istituto scopriamo che esiste una pagina intitolata “Perché non brevettiamo le nostre ricerche” <https://www.marionegri.it/non-brevettiamo>.

Garattini commenta la politica antibrevettuale dell’istituto che presiede a pag. 74 del libro. Si è scelto di non brevettare per esse liberi. Liberi di orientare la ricerca per motivazioni estranee al profitto, liberi di costruire e disseminare la ricerca (cioè di praticare la scienza aperta), liberi di dedicare tempo e risorse alla formazione (tempo e risorse che altrimenti andrebbero indirizzate a progettare e attuare strategie di brevettazione), liberi di costruire collaborazioni con altri scienziati visti come partner e non come antagonisti di una corsa brevettuale.

Il tema posto dalla pagina web dell’Istituto Mario Negri è quello del conflitto di interessi innescato dai brevetti universitari (o di enti e istituti pubblici finanziati con le tasse dei cittadini) in campo biomedico e farmacologico.

La politica antibrevettuale dell’Istituto Mario Negri è una mosca bianca in Italia, dove il modello dei brevetti universitari, anche nel campo della cura della salute, tiene banco da almeno venti anni a questa parte sulla scia dell’imitazione del modello giuridico americano che ha nel Bayh-Dole Act del 1980 la sua legge-simbolo. Tale legge, tra l’altro, consente alle università americane di brevettare le ricerche frutto del finanziamento federale.

Gli italiani si sono affrettati a imitare (male) il modello statunitense e non hanno letto e discusso le critiche che gli stessi studiosi americani andavano maturando, soprattutto in ambito biomedico.

Il tema è oggi tornato di moda, in occasione della riforma del codice italiano della proprietà industriale, ma ancora una volta si discute dei dettagli (a chi spetta la titolarità del brevetto: al ricercato o all’università), perdendo di vista il quadro d’insieme.

Una drammatica dimostrazione degli effetti collaterali dei brevetti universitari in ambito biomedico è stata offerta dall’attuale pandemia. Durante questi tre anni sono state pubblicate sulla stampa quotidiana notizie relative a (presunti) brevetti di università italiane su tecnologie che si candidavano a diventare nuovi vaccini anti-SARS Cov-2. Al di là delle vanterie di prammatica – diffuse allo scopo di intercettare finanziatori –, sorge spontanea la domanda: ma davvero si può arrivare a un vaccino nazionale scatenando la corsa al brevetto tra le università italiane in grado di fare ricerca nel campo farmacologico? E di seguito un altro dubbio: una volta che un’università italiana ha brevettato il nuovo vaccino, essa è libera di cedere il diritto di esclusiva a un’impresa americana o indiana? Non sarebbe stato meglio coordinare gli sforzi di ricerca e collaborare? E non sarebbe meglio pensare a un vaccino libero e aperto per il mondo invece che un vaccino nazionale e protetto da proprietà intellettuale?

Forse sarebbe il caso di riprendere una seria e approfondita discussione sui brevetti universitari in ambito biomedico e farmacologico, magari tenendo presenti le parole con le quali si chiude la politica antibrevettuale dell’Istituto Mario Negri.

“Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.

Nuovo LawTech Research Paper

R. Caso, La valutazione autoritaria e la privatizzazione della conoscenza contro la scienza aperta

Abstract. Oggi il carattere democratico della scienza è minacciato dalla valutazione autoritaria nonché dalla privatizzazione della conoscenza. Non è solo una minaccia per l’università ma per la tenuta stessa della democrazia. Due esempi (pubblicazioni scientifiche e brevetti universitari in ambito biomedico) possono forse rendere l’idea di cosa significhi valutazione autoritaria e privatizzazione della conoscenza nell’università italiana.

Proprietà intellettuale

Roberto Caso

Voce del Dizionario AISA della scienza aperta

25 agosto 2022, modificata il 26 e il 28 agosto 2022, pdf qui, e su Zenodo

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:World_Intellectual_Property_Organization_(WIPO)_members_world_map.png

L’espressione “proprietà intellettuale” è di quelle che dominano la scena della contemporaneità. Eppure il suo uso come categoria giuridica che identifica numerosi differenti diritti di esclusiva su attività umane è molto recente. Attualmente la categoria include diritti d’autore, brevetti per invenzione, marchi, disegni industriali, indicazioni geografiche, segreti commerciali. Secondo una ricostruzione di un autorevole studioso della materia, l’uso della macrocategoria inizia a diffondersi a seguito dell’istituzione nel 1967 dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà (World Intellectual Property Organization o WIPO). La WIPO è un’agenzia delle Nazioni Unite che conta 193 Paesi membri ed è dedita allo sviluppo di un sistema normativo internazionale “bilanciato” ed efficace di proprietà intellettuale.

L’uso della macrocategoria si è poi definitivamente imposto – o è stato imposto dall’Occidente – attraverso una delle normative più emblematiche del capitalismo globale: l’accordo nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sui diritti di proprietà intellettuale del 1994 (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights o TRIPS).

Attraverso gli accordi normativi internazionali gli Stati hanno parzialmente ceduto la propria sovranità nazionale. Le grandi linee di sviluppo nonché il c.d. bilanciamento tra proprietà intellettuale e altri diritti sono nelle mani di organi e corti internazionali.

L’Unione Europea ha competenza nella materia e ha inserito la proprietà intellettuale nell’art. 17.2 della Carta dei Diritti Fondamentali, accostandola al vero diritto di proprietà e privandola, almeno a livello della lettera del testo, della clausola sociale.

La categoria della proprietà intellettuale rimane però filosoficamente e giuridicamente controversa per diverse ragioni.

a) Accumuna diritti che poco hanno a che fare l’uno con l’altro. Tali diritti hanno ragioni giustificative e finalità differenti. Il diritto d’autore disciplina le opere dell’ingegno della letteratura, dell’arte e della scienza. Il brevetto per invenzione riguarda l’innovazione industriale. Il marchio serve a identificare prodotti e servizi. E così via. La riconducibilità di questi diritti alla proprietà è discussa sia nel pensiero giusnaturalista sia in quello utilitarista.

b) Stabilisce un accostamento forzato tra diritti di esclusiva su beni tangibili (la proprietà in senso stretto) con i diritti di esclusiva su beni intangibili che hanno natura profondamente diversa. I beni tangibili sono rivali al consumo. I beni intangibili no: possono essere fruiti contemporaneamente da un numero infinito di persone. Lo stesso riferimento al bene intangibile come frutto dell’attività del pensiero umano è controverso.

c) Nasconde retoricamente la natura monopolistica del diritto di esclusiva. Un conto è parlare di proprietà, altro è parlare di monopolio. Nei sistemi capitalistici ad economia liberale il monopolio viene, almeno in linea teorica, contrastato dal diritto. Mentre la proprietà è un pilastro del capitalismo liberale. Nelle costituzioni in cui il diritto di proprietà è un diritto fondamentale – e non è il caso della Costituzione italiana – l’accostamento esplicito o implicito della proprietà intellettuale alla proprietà, significa fondamentalizzare il diritto, cioè renderlo inattaccabile da norme di legge ordinaria che contrastano con il contenuto costituzionale.

Negli ultimi decenni la normativa degli accordi internazionali ha esteso progressivamente il contenuto della c.d. proprietà intellettuale. Beni della conoscenza che in passato erano comuni oggi sono sottratti alla destinazione universale e gravati da esclusive. Ma c’è di più e di peggio. La proprietà intellettuale riguarda sempre di più il controllo delle infrastrutture tecnologiche e della loro logica (gli algoritmi) costituendo una barriera di accesso a monte del sistema di comunicazione e di progresso della conoscenza.

La proprietà intellettuale alimenta il capitalismo dei monopoli intellettuali che genera gravi disuguaglianze e mette a rischio la democrazia. Disuguaglianze tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Disuguaglianze, anche nei Paesi ricchi, tra persone che possono pagare il prezzo per l’accesso alla conoscenza e persone che non hanno questa possibilità. Si pensi, ad esempio, all’accesso ai testi e alle altre risorse formative della scuola e dell’università.

Peraltro, il fenomeno della concentrazione nelle mani di pochi soggetti del controllo esclusivo di informazioni, dati e capacità computazionale si basa oggi non solo sul diritto (la c.d. proprietà intellettuale) ma anche (e soprattutto) sul potere di fatto delle grandi piattaforme commerciali di Internet.

Nel campo della scienza la tendenza a privatizzare la conoscenza, cioè ad estendere le esclusive (giuridiche e di fatto) fino al controllo della ricerca di base, dei mattoni fondamentali del sapere, dei beni essenziali per la vita (ad es., farmaci e vaccini) e delle infrastrutture della comunicazione (prima fra tutte: Internet) mette a rischio la distinzione tra ricerca animata dal progresso della conoscenza (in particolare, la ricerca del settore pubblico per l’interesse di tutti) e ricerca orientata al profitto (di pochi). Alimenta i conflitti di interesse. Omologa le istituzioni accademiche e scientifiche alle aziende.

Fin dai primi anni 2000 c’è chi mette in guardia sul fatto che la scienza aperta è inconciliabile con la continua espansione della proprietà intellettuale. Quel monito è oggi più vero che mai.