Roberto Caso
1° dicembre 2021 (“I brevetti e la sporca guerra“, Alto Adige, 3 dicembre 2021, “Pandemia e proprietà intellettuale“, Adige, 5 dicembre 2021)
Il dibattito sulla sospensione a livello internazionale degli accordi relativi proprietà intellettuale torna alla ribalta dei mass media. Su giornali, televisioni e web si riaccendono discussioni rimaste sopite nelle ultime settimane.
I motivi della rinnovata attenzione sono almeno tre: la diffusione della variante Omicron, il rinvio della riunione in presenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) che avrebbe dovuto discutere in questi giorni la proposta avanzata già nell’ottobre 2020 da India e Sudafrica di sospensione degli accordi sulla proprietà intellettuale nel ambito del commercio internazionale (TRIPS), la convocazione per questa settimana da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di una sessione speciale dell’assemblea globale della sanità che dovrebbe iniziare a discutere di un nuovo trattato per la prevenzione delle pandemie.
Gli organi di informazione ci sbattano in faccia i dati di quella che è stata definita, a giusta ragione, una catastrofe morale. Mentre il ricco Occidente si affretta a somministrare la terza dose di vaccino e irrobustisce le misure per convincere od obbligare chi non ha assunto nemmeno la prima, nei Paesi meno sviluppati e in quelli poveri le percentuali di vaccinati sono irrisorie. I motivi della difficoltà a vaccinare le proprie popolazioni da parte di Stati economicamente svantaggiati sono molti. Tra questi figura, senza dubbio, l’impossibilità di poter usare conoscenze e tecnologie protette dalla proprietà intellettuale occidentale.
La retorica del “o ci si salva tutti assieme, o non ci si salva” suona come un sinistro ritornello che stride con la conta (parziale) dei milioni di morti. I ricchi Paesi occidentali, con in testa la nostra Unione Europea, non vogliono rinunciare al dominio tecnologico e a proteggere le grandi case farmaceutiche. Il macabro balletto di dichiarazioni confuse e contradditorie con mezze aperture subito smentite da intransigenti chiusure rende chiaro che non ci sarà nessun serio intervento volto a sospendere a livello internazionale e nazionale la proprietà intellettuale (non solo i brevetti) su farmaci (non solo i vaccini) e dispositivi medici utili a contrastare la pandemia.
Né gli argomenti solidaristici – riflessi nei sempre più numerosi appelli e petizioni della società civile – né quelli egoistici – “il virus e le sue mutazioni non conoscono frontiere” – sembrano far breccia nei decisori politici.
Il divario tra principi fondanti delle nostre democrazie – uguaglianza e solidarietà – e quel che viene messo in pratica dai governi si fa baratro. Lo ha denunciato recentemente il Presidente Mattarella con riferimento a quel che accade ai migranti che tentano di trovare rifugio in Europa. Si ripropone per la vicenda dei milioni di persone che meriterebbero di trovare protezione sanitaria dal virus e che invece sono abbandonati a sé stessi.
Il problema non sta solo nella politica e nel diritto dell’emergenza – la sospensione temporanea della proprietà intellettuale – ma nella proprietà intellettuale in sé. La proprietà intellettuale è pensata per competere al fine di ottenere il controllo monopolistico della conoscenza. Per elevare barriere e steccati intorno alle tecnologie. A livello geopolitico per dominare chi non è in grado “produrre” proprietà intellettuale. L’esatto contrario di quello che di cui ha bisogno l’umanità per questa, per le prossime pandemie e per altre minacce come il cambiamento climatico.
Il problema sta anche (e soprattutto) nella politica e nel diritto del futuro. Insomma, ci sarebbe bisogno di una riforma organica del sistema di produzione della conoscenza. In particolare, andrebbe ripensato il rapporto tra la conoscenza prodotta con fondi pubblici dalle istituzioni non orientate al profitto e quella prodotta dalle imprese. In decenni di deriva neoliberista è stato costruito un sistema che determina il paradosso – ben visibile in campo farmaceutico – che la conoscenza prodotta con fondi pubblici finisce per essere privatizzata. Ciò è inaccettabile: lo Stato paga una prima volta finanziando la ricerca e una seconda volta comprando il farmaco dalle imprese. Ma soprattutto perde il controllo della tecnologia. Se l’impresa farmaceutica (pur finanziata con fondi pubblici) è lasciata libera di controllare la tecnologia con segreti e brevetti, sarà l’unica a decidere a chi e a quanto vendere.
A leggere i vari piani e strategie dell’Unione Europea e dell’Italia – dai piani d’azione sulla proprietà intellettuale al PNRR – l’auspicato ripensamento del sistema di produzione della conoscenza non è neanche all’orizzonte. Le indicazioni che emergono dai documenti istituzionali sono chiare: rafforzamento della proprietà intellettuale e del trasferimento tecnologico da università ed enti di ricerca a imprese.
Insomma, quando si parla di “strategia” della proprietà intellettuale su farmaci e dispositivi medici, si parla di guerra. Ma per favore non chiamiamola retoricamente “guerra contro il virus”. È la solita sporca guerra tra uomini, solo che il sangue non è immediatamente visibile.