I brevetti universitari in campo biomedico e farmacologico: un modello da ripensare?

Roberto Caso

6 dicembre 2022, pubblicato su Alto Adige, 9 dicembre 2022

Il 5 dicembre 2022 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo trentino si è discusso del libro-intervista “Brevettare la salute? Una medicina senza mercato” di Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS, curato per Il Mulino dalla giornalista scientifica Caterina Visco. Il seminario è stato organizzato dal prof. Marco Pertile dell’Università di Trento e ha visto la partecipazione, oltre che di Silvio Garattini, di diversi accademici provenienti da differenti aree scientifiche.

La tesi di fondo di Silvio Garattini è netta: “l’introduzione del brevetto sui farmaci, in Italia [dal 1978] e nel mondo, non si è rivelata sinonimo di innovazione e progresso, e anzi ha portato a conseguenze negative” (p. 11).

Nonostante la brevettabilità dei farmaci in tre anni di pandemia di Covid-19 l’Italia non è stata capace di produrre un proprio vaccino, e nel mondo solo la parte più ricca della popolazione ha avuto accesso ai vaccini.

Scrive in proposito Garattini “[…] le aziende proprietarie dei vaccini brevettati si sono limitate a produrre le dosi commercializzabili, acquistabili e acquistate spesso con anticipo, sorde – e con loro molti Paesi ad alto reddito – alle richieste, provenienti da più voci, di rinunciare temporaneamente alla proprietà intellettuale per permettere ad altre industrie di produrre i miliardi di dosi necessarie per vaccinare il resto del mondo” (p. 123-124).

Come sostiene persuasivamente il presidente dell’Istituto Mario Negri, l’attuale pandemia è solo un esempio, sebbene macroscopico, di un problema generale: la commistione tra le ragioni del profitto e quelle della scienza nonché della tutela della salute e della vita.

Garattini immagina un sistema di prevenzione delle malattie e della salute che prescinda del tutto dalla proprietà intellettuale e dal profitto. Ma pragmaticamente immagina anche un percorso graduale per giungere al nuovo sistema. Occorrerebbe procedere per intanto a una riforma dell’attuale meccanismo di proprietà intellettuale sui farmaci (p. 124-125).

a) Si ritiene utile non brevettare i marchi dei farmaci per permettere la commercializzazione con il solo nome generico.

b) Si dovrebbe evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.

c) Il brevetto dovrebbe essere garantito solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto ai prodotti già esistenti.

d) Questo dovrebbe essere dimostrato attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.

e) Se il nuovo farmaco fosse migliore dovrebbe essere abolito il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.

f) Infine, dovrebbe essere impossibile brevettare prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.

La riforma della proprietà intellettuale sarebbe di per sé non sufficiente, occorrerebbe trovare “altri motori [non profit] per l’innovazione in campo medico e farmaceutico” (p. 125).

Non si tratta di dichiarazioni di principio, ma di quanto l’Istituto Mario Negri mette in pratica.

Infatti, sul sito web dell’istituto scopriamo che esiste una pagina intitolata “Perché non brevettiamo le nostre ricerche” <https://www.marionegri.it/non-brevettiamo>.

Garattini commenta la politica antibrevettuale dell’istituto che presiede a pag. 74 del libro. Si è scelto di non brevettare per esse liberi. Liberi di orientare la ricerca per motivazioni estranee al profitto, liberi di costruire e disseminare la ricerca (cioè di praticare la scienza aperta), liberi di dedicare tempo e risorse alla formazione (tempo e risorse che altrimenti andrebbero indirizzate a progettare e attuare strategie di brevettazione), liberi di costruire collaborazioni con altri scienziati visti come partner e non come antagonisti di una corsa brevettuale.

Il tema posto dalla pagina web dell’Istituto Mario Negri è quello del conflitto di interessi innescato dai brevetti universitari (o di enti e istituti pubblici finanziati con le tasse dei cittadini) in campo biomedico e farmacologico.

La politica antibrevettuale dell’Istituto Mario Negri è una mosca bianca in Italia, dove il modello dei brevetti universitari, anche nel campo della cura della salute, tiene banco da almeno venti anni a questa parte sulla scia dell’imitazione del modello giuridico americano che ha nel Bayh-Dole Act del 1980 la sua legge-simbolo. Tale legge, tra l’altro, consente alle università americane di brevettare le ricerche frutto del finanziamento federale.

Gli italiani si sono affrettati a imitare (male) il modello statunitense e non hanno letto e discusso le critiche che gli stessi studiosi americani andavano maturando, soprattutto in ambito biomedico.

Il tema è oggi tornato di moda, in occasione della riforma del codice italiano della proprietà industriale, ma ancora una volta si discute dei dettagli (a chi spetta la titolarità del brevetto: al ricercato o all’università), perdendo di vista il quadro d’insieme.

Una drammatica dimostrazione degli effetti collaterali dei brevetti universitari in ambito biomedico è stata offerta dall’attuale pandemia. Durante questi tre anni sono state pubblicate sulla stampa quotidiana notizie relative a (presunti) brevetti di università italiane su tecnologie che si candidavano a diventare nuovi vaccini anti-SARS Cov-2. Al di là delle vanterie di prammatica – diffuse allo scopo di intercettare finanziatori –, sorge spontanea la domanda: ma davvero si può arrivare a un vaccino nazionale scatenando la corsa al brevetto tra le università italiane in grado di fare ricerca nel campo farmacologico? E di seguito un altro dubbio: una volta che un’università italiana ha brevettato il nuovo vaccino, essa è libera di cedere il diritto di esclusiva a un’impresa americana o indiana? Non sarebbe stato meglio coordinare gli sforzi di ricerca e collaborare? E non sarebbe meglio pensare a un vaccino libero e aperto per il mondo invece che un vaccino nazionale e protetto da proprietà intellettuale?

Forse sarebbe il caso di riprendere una seria e approfondita discussione sui brevetti universitari in ambito biomedico e farmacologico, magari tenendo presenti le parole con le quali si chiude la politica antibrevettuale dell’Istituto Mario Negri.

“Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.

La fragilità della democrazia 2

L’estradizione di Assange e la mancata sospensione della proprietà intellettuale per il contrasto del COVID-19

I want you for U.S. Army : nearest recruiting station / James Montgomery Flagg. 1917. Library of Congress..War poster with the famous phrase “I want you for U. S. Army” shows Uncle Sam pointing his finger at the viewer in order to recruit soldiers for the American Army during World War I. The printed phrase “Nearest recruiting station” has a blank space below to add the address for enlisting…http://hdl.loc.gov/loc.pnp/ppmsca.50554

Roberto Caso versione estesa 2.0 21 giugno 2022 pubblicato su Agenda Digitale, 23 giugno 2022 con il titolo “Assange e vaccini, ecco le contraddizioni etiche dell’Occidente“, versione breve 1.0 18 giugno 2022 qui

1. L’estradizione di Assange e la mancata sospensione degli accordi TRIPS sulla proprietà intellettuale

Il 17 giugno 2022 le agenzie di stampa rimbalzavano due notizie apparentemente lontane e slegate.

La prima riguarda la decisione del governo britannico, per mano della ministra Priti Patel, di estradare l’australiano Julian Assange, fondatore nel 2006 di Wikileaks, negli Stati Uniti. Ad Assange e Wikileaks si devono, tra l’altro, la rivelazione dei crimini di guerra statunitensi commessi in Afghanistan e Iraq. Prima un anno e mezzo agli arresti domiciliari, poi rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e infine negli ultimi tre anni recluso in una prigione inglese di massima sicurezza, Assange è privo della libertà personale da quasi dodici anni senza aver subito una condanna (men che meno definitiva). In altri termini, è un cittadino innocente in attesa di un giudizio (di uno Stato straniero). Ha dovuto affrontare decisioni altalenanti dei giudici inglesi per poi subire un ordine di estradizione da parte della ministra Patel. Le sue condizioni fisiche e mentali lo espongono al rischio di perdere la vita. L’ultima speranza, sul piano giuridico, è affidata all’impugnazione dell’atto ministeriale da presentare entro un termine brevissimo e a un eventuale ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani, la quale, peraltro, in questi giorni si è espressa in via d’urgenza contro il Regno Unito bloccando la deportazione di rifugiati in Ruanda.

La seconda concerne la decisione in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO nell’acronimo inglese) di raggiungere un accordo compromissorio nella materia dei brevetti sui vaccini che, in sostanza, lascia intatto l’attuale quadro normativo sulla proprietà intellettuale. In definitiva, l’accordo rigetta la proposta volta a sospendere tutti i diritti di proprietà intellettuale su farmaci, vaccini e dispositivi medici utili a contrastare il COVID-19. La proposta era stata avanzata da India e Sudafrica nell’ottobre del 2020 e poi sostenuta da molti Paesi nonché da un vasto movimento di opinione.

2. La fragilità della democrazia occidentale

Cosa lega le due notizie? La fragilità della democrazia occidentale e di due dei suoi valori fondanti: la libertà (di informazione) e la solidarietà. In questi mesi, la comunicazione dei governi occidentali si concentra, retoricamente, sulle minacce esterne alla democrazia liberale – Russia e Cina in testa – ma tace sulle debolezze e le contraddizioni interne.

La decisione di estradare Assange viene da un governo conservatore, politicamente indebolito, di un Paese che, a seguito della Brexit, appare sempre più allo sbando e prono alla potenza americana. Come ha messo in evidenza Vincenzo Vita su Il Manifesto il meccanismo giuridico inglese che porta all’estradizione è “curioso”. La decisione finale spetta a un ministro. Cioè è una decisione non collegiale di un solo rappresentante del potere esecutivo. La culla della democrazia liberale mostra evidentemente tutte le sue fragilità.

Alcuni commentatori – tra questi Andrea Monti su Repubblica – hanno sostenuto che Assange dovrebbe affrontare il processo negli USA. Ma l’accettazione da parte di un cittadino australiano, detenuto attualmente nel Regno Unito, del processo americano sconterebbe la compressione delle garanzie di giustizia che dipenderebbero dall’applicazione della legge in base alla quale gli Stati Uniti chiedono l’estradizione dell’australiano fondatore di Wikileaks: l’Espionage Act del 1917. L’amministrazione Trump nel maggio del 2019 ha infatti fondato le accuse verso il giornalista Assange sulla legge antispionaggio. Tale legge, nata allo scopo di perseguire penalmente i dissidenti contrari all’entrata degli USA nella prima guerra mondiale e poi a più riprese modificata, non distingue le spie dai whistelblower e non consente di difendersi in base al pubblico interesse. Comunque anche un’eventuale assoluzione – che sembra difficile da immaginare – non restituirebbe ad Assange gli anni di privazione di libertà che gli sono stati inflitti da uno Stato straniero, senza un processo e senza una condanna. Non si tratta quindi di un conflitto tra l’etica personale di un giornalista e il diritto, bensì “fra il diritto interno di un singolo stato, e l’etica di un cittadino straniero”, etica che si associa al diritto fondamentale alla libertà di espressione del pensiero. Insomma, si tratta di una questione giuridica (oltre che etica). Posto che tutti i Paesi occidentali riconoscono la libertà di informare e di essere informati, si tratta di decidere, attraverso gli strumenti del diritto internazionale (conflitto tra leggi territoriali), quale legge applicare. Se si ritiene, a buona ragione, che il diritto statunitense non è il diritto globale, non c’è nussun motivo giuridico che imponga ad Assange e al Paese dove è detenuto in carcere di accettare l’estradizione verso gli USA e il processo americano. Mentre ce ne sono di solidissimi che muovono verso la sua immediata liberazione.

La decisione di non sospendere i diritti di proprietà intellettuale chiude una danza macabra durata più di un anno e mezzo in cui hanno prevalso le pressioni delle Big Pharma per mantenere in piedi un sistema in cui decidono i poteri privati (e non gli elettori dei Parlamenti) e le strategie geopolitiche del blocco occidentale con l’Unione Europea in testa.

Il compromesso raggiunto si limita a consentire ai Paesi in via di sviluppo membri della OMC che non hanno capacità produttiva dei vaccini anti-COVID-19 di far uso di licenze obbligatorie di brevetti per invenzione non solo per la produzione interna, ma anche per l’esportazione verso altri Paesi in via di sviluppo anch’essi membri dell’organizzazione mondiale del commercio al fine di garantire un accesso equo ai vaccini. L’accordo, perciò, concerne i soli brevetti e lascia l’iniziativa ai singoli Stati membri dell’OMC. Per questo si discosta molto dalla proposta inziale di India e Sudafrica che invece riguardava la sospensione dell’accordo internazionale sul commercio in riferimento a tutti i diritti di proprietà intellettuale (non solo i brevetti) su tutti i farmaci (non solo vaccini) e dispositivi medici utili a contrastare la pandemia.

Provando a immedesimarsi negli occhi di chi proviene da Paesi poveri sprovvisti di informazioni, conoscenze e tecnologie per la tutela della salute, tale decisione suona come l’ennesima manifestazione di arroganza del potere coloniale. Il colonialismo, infatti, non funziona solo commettendo genocidi e depredando risorse naturali, ma anche negando beni immateriali (la proprietà intellettuale) che servono a salvare vite umane. Nicoletta Dentico su Sbilanciamoci ha scritto incisivamente sulla vicenda utilizzando la metafora della guerra.

“L’economia della conoscenza scientifica ed i meccanismi legalizzati di ‘appropriazione della scienza’ (come sostengono accreditati economisti) da parte di Big Pharma, anche quando l’innovazione è generata con finanziamenti pubblici (come, ma non solo, nel caso di Covid-19), definisce un crinale di guerra aperta tra il Nord e il Sud del mondo. Nessuno si scandalizzi per il paragone con la guerra tra Russia e Ucraina. Anche questa lo è. […] Su questo fronte, come sul recente conflitto europeo, il multilateralismo esce a pezzi, in un dialogo tra sordi non più in grado di intercettare le istanze di cambiamento e di trovare una mediazione conveniente alla sfida delle future pandemie”.

3. Conclusioni

La mobilitazione in giro per il mondo a favore di Assange può ancora provare a difendere la libertà di espressione. Nel nostro Paese è degna di nota la presa di posizione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) che per bocca del suo segretario generale Raffaele Lorusso ha dichiarato che:

La decisione del governo di Londra di consentire l’estradizione di Julian Assange negli Usa è un attacco alla libertà di informare”.

La FNSI ha organizzato per il 21 giugno presso la sua sede la presentazione dell’appello contro l’estradizione di Assange promosso dal premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquive con il coinvolgimento, tra gli altri, di Stefania Maurizi, Vincenzo Vita e Armando Spataro.

C’è da augurarsi che si moltiplichino anche le iniziative per difendere la solidarietà e riformare la proprietà intellettuale a livello internazionale e nazionale.

Libertà, eguaglianza e fratellanza (solidarietà). A forza di declamare principi e valori traditi dai fatti non solo perdiamo forza e credibilità verso le minacce provenienti da mondi diversi dal nostro, ma distruggiamo la nostra storia e la nostra identità.

La fragilità della democrazia

L’estradizione di Assange e la mancata sospensione della proprietà intellettuale per il contrasto del COVID-19

Roberto Caso, versione breve 1.0 18 giugno 2022, pubblicata su L’Adige il 20 giugno 2022 con il titolo “La fragile democrazia dell’Occidente“, versione estesa 2.0 21 giugno 2022

Il 17 giugno 2022 le agenzie di stampa rimbalzavano due notizie apparentemente lontane e slegate.

La prima riguarda la decisione del governo britannico, per mano della ministra Priti Patel, di estradare l’australiano Julian Assange, fondatore nel 2006 di Wikileaks, negli Stati Uniti. Ad Assange e Wikileaks si devono, tra l’altro, la rivelazione dei crimini di guerra statunitensi commessi in Afghanistan e Iraq. Prima un anno e mezzo agli arresti domiciliari, poi rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e infine negli ultimi 3 anni recluso in una prigione inglese di massima sicurezza, Assange è privo della libertà personale da quasi dodici anni senza aver subito una condanna (men che meno definitiva). In altri termini, è un cittadino innocente in attesa di un giudizio (di uno Stato straniero). Ha dovuto affrontare decisioni altalenanti dei giudici inglesi per poi subire un ordine di estradizione da parte della ministra Patel. Le sue condizioni fisiche e mentali lo espongono al rischio di perdere la vita. L’ultima speranza, sul piano giuridico, è affidata all’impugnazione dell’atto ministeriale da presentare entro un termine brevissimo e a un eventuale ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani.

La seconda concerne la decisione in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO nell’acronimo inglese) di raggiungere un accordo compromissorio nella materia dei brevetti sui vaccini che, in sostanza, lascia intatto l’attuale quadro normativo sulla proprietà intellettuale. In definitiva, l’accordo rigetta la proposta volta a sospendere tutti i diritti di proprietà intellettuale su farmaci, vaccini e dispositivi medici utili a contrastare il COVID-19. La proposta era stata avanzata da India e Sudafrica nell’ottobre del 2020 e poi sostenuta da molti Paesi nonché da un vasto movimento di opinione.

Cosa lega le due notizie? La fragilità della democrazia occidentale e di due dei suoi valori fondanti: la libertà (di informazione) e la solidarietà. In questi mesi, la comunicazione dei governi occidentali si concentra, retoricamente, sulle minacce esterne alla democrazia liberale – Russia e Cina in testa – ma tace sulle debolezze e le contraddizioni interne.

La decisione di estradare Assange viene da un governo conservatore, politicamente indebolito, di un Paese che, a seguito della Brexit, appare sempre più allo sbando e prono alla potenza americana. Come ha messo in evidenza Vincenzo Vita su Il Manifesto il meccanismo giuridico inglese che porta all’estradizione è “curioso”. La decisione finale spetta a un ministro. Cioè è una decisione non collegiale di un solo rappresentante del potere esecutivo. La culla della democrazia liberale mostra evidentemente tutte le sue fragilità.

La decisione di non sospendere i diritti di proprietà intellettuale chiude una danza macabra durata più di un anno e mezzo in cui hanno prevalso le pressioni delle Big Pharma per mantenere in piedi un sistema in cui decidono i poteri privati (e non gli elettori dei Parlamenti) e le strategie geopolitiche del blocco occidentale con l’Unione Europea in testa. Provando a immedesimarsi negli occhi di chi proviene da Paesi poveri sprovvisti di informazioni, conoscenze e tecnologie per la tutela della salute, tale decisione suona come l’ennesima manifestazione di arroganza del potere coloniale. Il colonialismo, infatti, non funziona solo commettendo genocidi e depredando risorse naturali, ma anche negando beni immateriali (la proprietà intellettuale) che servono a salvare vite umane. Nicoletta Dentico su Sbilanciamoci ha scritto incisivamente sulla vicenda utilizzando la metafora della guerra.

“L’economia della conoscenza scientifica ed i meccanismi legalizzati di ‘appropriazione della scienza’ (come sostengono accreditati economisti) da parte di Big Pharma, anche quando l’innovazione è generata con finanziamenti pubblici (come, ma non solo, nel caso di Covid-19), definisce un crinale di guerra aperta tra il Nord e il Sud del mondo. Nessuno si scandalizzi per il paragone con la guerra tra Russia e Ucraina. Anche questa lo è. […] Su questo fronte, come sul recente conflitto europeo, il multilateralismo esce a pezzi, in un dialogo tra sordi non più in grado di intercettare le istanze di cambiamento e di trovare una mediazione conveniente alla sfida delle future pandemie”.

La mobilitazione in giro per il mondo a favore di Assange può ancora provare a difendere la libertà di espressione. Nel nostro Paese è degna di nota la presa di posizione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) che per bocca del suo segretario generale Raffaele Lorusso ha dichiarato che:

“La decisione del governo di Londra di consentire l’estradizione di Julian Assange negli Usa è un attacco alla libertà di informare”

La FNSI organizza per il 21 giugno presso la sua sede la presentazione dell’appello contro l’estradizione di Assange promosso dal premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquive alla quale saranno presenti, tra gli altri, Stefania Maurizi, Vincenzo Vita e Armando Spataro.

C’è da augurarsi che si moltiplichino anche le iniziative per difendere la solidarietà e riformare la proprietà intellettuale a livello internazionale e nazionale.

Libertà, eguaglianza e fratellanza (solidarietà). A forza di declamare principi e valori traditi dai fatti non solo perdiamo forza e credibilità verso le minacce provenienti da mondi diversi dal nostro, ma distruggiamo la nostra storia e la nostra identità.

Open Science o proprietà intellettuale? Il caso dei brevetti universitari sui vaccini

Presentazione disponibile qui.

Video disponibile qui.

Letture qui, qui, qui e qui.

AISA, Per un vaccino anti Covid-19 aperto a tutti, 14 febbraio 2021

Università del Piemonte Orientale, Sistema Bibliotecario di Ateneo, Gruppo OA

In collaborazione con AISA e con la Commissione OA di Ateneo, il Gruppo OA organizza il webinar:  Open Science o proprietà intellettuale? Il caso dei brevetti universitari sui vaccini – giovedì 17 marzo 2022, dalle ore 11,00 alle ore 13,00

Abstract: “Nel campo dei farmaci e dei vaccini mercato e proprietà intellettuale non funzionano. Non garantiscono il diritto umano alla salute, provocano diseguaglianze e ingiustizie, inducono la formazione di monopoli, non generano tutta l’innovazione necessaria, si basano su opacità e conflitti di interesse. Nel rapporto tra ricerca pubblica e società i brevetti universitari su farmaci e vaccini giocano un ruolo importante. La tesi presentata in questo seminario è la seguente: il compito dell’università non è quello di chiudere la conoscenza attraverso la proprietà intellettuale su beni essenziali quali i vaccini, ma di praticare la scienza aperta”.

Riferimenti

ADI (Associazione Dottorandi e dottori di ricerca in Italia), L’università che c’è e l’università che vogliamo. Appunti sul finanziamento del sistema universitario pubblico, 31 dicembre 2021

AISA, Per un vaccino anti Covid-19 aperto a tutti, 14 febbraio 2021 •M. Biagioli, Of Viruses and Licenses: Lessons from COVID-19 Vaccine Patent Debates, Los Angeles Review of Books, July 9, 2021

N. Boschiero, COVID-19 Vaccines as Global Common Goods: An Integrated Approach of Ethical, Economic Policy and Intellectual Property Management, Global Jurist, October 1, 2021

J.L. Contreras, Chapter 14: Academic Technology Transfer (January 1, 2021). Jorge L. Contreras, Intellectual Property Licensing and Transactions: Theory and Practice (ver. 0.9, Cambridge Univ. Press, 2021, Forthcoming), Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3772916

J.L. Contreras, ‘In the Public Interest’ – University Technology Transfer and the Nine Points Document – An Empirical Assessment (December 21, 2021). University of Utah College of Law Research Paper No. 476, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3990450 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3990450

N. Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, EMI, 2020

M. Florio, L. Iacovone, Pandemie e ricerca farmaceutica: la proposta di una infrastruttura pubblica europea (parte prima), Menabò – Eticaeconomia, 7 maggio 2020

M. Florio, L. Iacovone, Pandemie e ricerca farmaceutica: la proposta di una infrastruttura pubblica europea (parte seconda), Menabò – Eticaeconomia, 16 maggio 2020

M. Florio, La privatizzazione della conoscenza, Laterza, 2021

S. Garattini, Brevettare la salute? Una medicina senza mercato, Il Mulino, 2022

Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, Perché non brevettiamo le nostre ricerche

D. G Legge, S. Kim (2021) Equitable Access to COVID-19 Vaccines: Cooperation around Research and Production Capacity Is Critical, Journal for Peace and Nuclear Disarmament, 4:sup1, 73-134, DOI: 10.1080/25751654.2021.1906591

U. Pagano, Il capitalismo dei monopoli intellettuali, Menabò-Eticaeconomia, 14 dicembre 2021

M.C. Pievatolo, commento alle proposte del Forum DD su “conoscenza come bene comune”, Agorà democratiche, 7 marzo 2022

A. Roventini, Sospensione dei brevetti e politiche dell’innovazione, Rivista Il Mulino, 18 maggio 2021

D. Traficonte,  Property and Power on the Endless Frontier (August 9, 2021). Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3901914 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3901914

T. Wu, La maledizione dei giganti. Un manifesto per la concorrenza e la democrazia, Il Mulino, 2021

Maria Chiara Pievatolo commenta le proposte del Forum Disuguaglianze e Diversità su farmaci e proprietà intellettuale

7 marzo 2022

La professoressa Maria Chiara Pievatolo, filosofa politica dell’Università di Pisa, commenta le proposte del Forum DD su “conoscenza come bene comune” in occasione di un seminario tenuto il 7 marzo nell’ambio delle Agorà democratiche.

Il testo del commento è disponinibile qui.

Una medicina senza mercato e senza brevetti

Il libro-intervista di Silvio Garattini e Caterina Visco su diritto alla salute, farmaci e proprietà intellettuale

Roberto Caso, 2 febbraio 2022

Nelle 125 pagine appena uscite da Il Mulino Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche – IRCCS Mario Negri dialoga con la giornalista e divulgatrice scientifica Caterina Visco su proprietà intellettuale e farmaci.

Si tratta di pagine chiare e preziose. Una guida agile e lucida per accedere al grande dibattito internazionale sui problemi dell’attuale sistema di produzione dei farmaci.

Il sistema si basa sul mercato e sulla proprietà intellettuale (brevetti per invenzione, segreti industriali, marchi, diritti d’autore). La tesi del grande farmacologo italiano è netta: mercato e proprietà intellettuale funzionano molto male. Non garantiscono il diritto umano alla salute, provocano diseguaglianze e ingiustizie, inducono la formazione di monopoli, non generano innovazione, si basano su opacità e conflitti di interesse. Le argomentazioni sono solide, corredate da numeri e fatti, nonché da alcuni essenziali riferimenti bibliografici alla fine di ciascun capitolo.

“Se le attuali regole di mercato, di proprietà intellettuale e di profitto, non garantiscono l’accesso alla salute a tutti i cittadini, forse vanno riformate, fatte evolvere in modo da mettere al centro l’interesse dei pazienti e della società” [p. 26]

La pandemia da COVID-19 ha riportato tragicamente sotto riflettori tutti i difetti dell’attuale politica di produzione dei farmaci. La globalizzazione ha edificato alla metà degli anni ’90 uno stringente apparato di protezione di diritti di proprietà intellettuale che copre dispositivi medici, farmaci e vaccini sull’assunto che più diritti di esclusiva avrebbero portato a più innovazione. Ma questo assunto nel tempo si è dimostrato infondato.

La proprietà intellettuale ha favorito l’emersione di monopoli e il mercato ha smesso di innovare: è possibile – denuncia Garattini – brevettare e mettere in commercio farmaci che non presentano un reale avanzamento in termini di cura (“valore terapeutico aggiunto”) [pp. 37, 48, 89-90]. Gli Stati hanno consegnato tutto il potere alle grandi industrie farmaceutiche, le quali producono solo quel che promette di generare profitto e non necessariamente ciò di cui la gente ha bisogno.

Buona parte dell’innovazione si deve alla ricerca di base di università, enti e istituti di ricerca finanziati con i fondi pubblici (i soldi dei cittadini), ma questa innovazione finisce per essere privatizzata dalle industrie farmaceutiche. Rastrellamento di brevetti universitari, cannibalizzazione di società nate in ambito universitario (spin-off e start-up) [p. 33], appropriazione dei risultati della ricerca (pubblicazioni e dati) messi in accesso aperto su Internet sono alcuni esempi di privatizzazione.

I cittadini comprano a prezzi monopolistici direttamente o indirettamente – in Italia tramite il Sistema Sanitario Nazionale per i prodotti a carico dello Stato inseriti in un’apposita lista – i farmaci che sono stati sviluppati anche grazie alle tasse da loro stessi versate. Insomma, pagano due volte la stessa cosa: la prima volta versando le tasse che vanno alla ricerca pubblica, la seconda volta acquistando il farmaco. Di più, il prezzo del farmaco non include solo la rendita monopolistica ma anche una quota che serve a coprire costi delle industrie totalmente slegati da ricerca e innovazione: lobbying presso decisori pubblici (legislatori, agenzie di controllo ecc.) nonché presso i medici, pubblicità del marchio, altre spese di commercializzazione [p. 76].

Le malattie rare e i c.d. farmaci orfani che non presentano prospettive di guadagno sono fuori dal radar delle industrie farmaceutiche [pp. 78-79]. I Paesi poveri che non possono permettersi i prezzi monopolistici sono espulsi dal mercato della salute. A quest’ultimo proposito, la storia ci ripropone la catastrofe morale che ha visto negare le cure per l’HIV/AIDS e l’epatite C ad ampie fasce della popolazione. La distribuzione dei vaccini contro il SARS Cov-2 è palesemente sbilanciata: mentre il ricco Occidente fornisce la terza e la quarta dose del siero, i Paesi a basso reddito non riescono a somministrare nemmeno la prima. L’ineguale distribuzione dei vaccini causa ingiustizia e moltiplica il rischio che si diffondano nuove pericolose varianti del virus. Una rapida ed eguale distribuzione dei vaccini su scala globale avrebbe evitato molti morti e consentito di uscire in breve tempo dalla pandemia.

Anche le agenzie di controllo dei farmaci non funzionano in modo ottimale, sebbene il quadro sia molto migliorato rispetto dagli anni ’50. Gli studi clinici (trials) su qualità, efficacia e sicurezza sono demandati alle stesse industrie farmaceutiche che producono i farmaci, con evidente conflitto di interessi [pp. 90-93]. I dati relativi alle sperimentazioni cliniche sono oggetto di un’esclusiva ad hoc (c.d. data exclusivity) che può aggiungersi al brevetto per invenzione. A questo proposito ha fatto scalpore il recente editoriale del prestigioso The British Medical Journal nel quale si è formulato l’appello a pubblicare adesso i dati relativi ai trials clinici sui vaccini in corso di somministrazione (Pfeizer, Moderna ecc.). Ad esempio, Pfizer dichiara che darà accesso ai dati da maggio 2025, Moderna da ottobre 2022. Da qui la richiesta di disponibilità immediata avanzata sul British Medical Journal.

La ricetta di Garattini per migliorare le attuali politiche di produzione dei farmaci è importante ed articolata (pp. 85-119, 125).

1) Abolire i marchi dei farmaci per permetterne la commercializzazione con il solo nome generico.

2) Evitare la brevettazione di prodotti che hanno lo stesso meccanismo d’azione pur con una struttura chimica differente.

3) Garantire il brevetto solo ai prodotti che dimostrano un “valore terapeutico aggiunto” rispetto a quelli già esistenti.

4) Dimostrare il “valore terapeutico aggiunto” attraverso studi clinici comparativi condotti da enti scientifici indipendenti.

5) Se il nuovo farmaco è migliore, abolire il brevetto dei farmaci con un rapporto meno favorevole tra rischi e benefici.

6) Vietare la brevettazione di prodotti esistenti in natura: geni, proteine oppure processi fisiologici.

7) Sperimentare, ad esempio, a livello europeo la creazione di gruppi di strutture pubbliche e fondazioni non-profit con adeguate competenze per poter procedere da un’idea di farmaco, attraverso la ricerca preclinica fino a studi di fase 3 (quelli che coinvolgono un elevato numero di pazienti e devono determinare validità, utilità e usabilità).

Quale dovrebbe essere il risultato della riforma del sistema brevettuale e della sperimentazione di forme di ricerca e imprenditorialità non-profit? Si potrebbe indurre una sana competizione tra industrie ed enti non-profit favorendo lo sviluppo di farmaci migliori e a più basso costo.

Garattini mostra di saper contemperare visione e pragmatismo.

“Forse in un mondo come quello di oggi non è possibile trovare una soluzione unica, ma è necessario mettere a punto diverse misure; quello che non va trascurato nei discorsi pratici è l’obiettivo finale: garantire l’accesso alla salute a tutti i cittadini, come dichiarato dalla nostra Costituzione e nei principi dell’Organizzazione mondiale della sanità” [p. 113]. “[…] Nel complesso, sul breve e lungo periodo, quello di una riforma di questo sistema è comunque un processo che prevede piccole tappe; un percorso che può avvenire su strade che possono correre in parallelo o magari in direzioni opposte ed essere contradditorie, perché il progresso è fatto di errori: trials and errors, esperimenti ed errori” [p. 114].

Nel libro Garattini non solo suggerisce le linee guida per un cambiamento radicale delle politiche di produzione dei farmaci – politiche che evidentemente sono nelle mani dei decisori pubblici -, ma ricorda anche di aver messo in pratica i fondamentali principi etici che le ispirano (pp. 73-75). Infatti, l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS ha una prospettiva della ricerca schiettamente anti-brevettuale. Sul sito web dell’istituto la ragione dell’ostilità verso i brevetti è spiegata in un’apposita pagina: “Perché non brevettiamo le nostre ricerche?”. La risposta è: “per essere liberi”. Liberi da conflitti di interesse, liberi di criticare, liberi di comunicare, liberi di collaborare.

“Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.

La scelta di rinunciare ai brevetti non riflette solo i celebri precedenti di Salk e Sabin, ma sembra trovare conferme anche in questi giorni con la promessa di un nuovo vaccino anti-COVID-19 libero dalla proprietà intellettuale: il CORBEVAX, frutto degli studi coordinati da Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi per la ricerca che fa capo al Texas Children’s Hospital e al Baylor College of Medicine. Il CORBEVAX è riconducibile una tecnologia tradizionale – proteine ricombinanti – risultato di ricerche finanziate con donazioni private di modestissima entità. Per la precisione si tratta di sette milioni di dollari, un’inezia a confronto con i miliardi di fondi pubblici piovuti sulle Big Pharma per la produzione dei vaccini a mRNA. Il vaccino privo di brevetti costituisce un modello importante: può essere ovunque prodotto a costi contenuti, conservato agevolmente e venduto a prezzi bassi: si stima 1,5/2 dollari a dose. Inoltre, deriva da una tecnologia tradizionale, ampiamente utilizzata anche per altri vaccini e sicura.

Il libro si chiude con un sogno. Si può immagine un futuro in cui la salute possa prescindere da mercato e proprietà intellettuale. L’obiettivo finale dovrebbe essere quello di:

“[…] giungere a una società più matura e con più ideali, in cui la ricerca in ambito medico e di salute pubblica non dovrebbe essere stimolata dal profitto, ma piuttosto da riconoscimenti di gratitudine pubblica. Potrebbe essere l’epoca in cui la medicina non è più un ‘mercato’ , ma un’organizzazione al servizio di chi soffre. […] Diversi lettori potrebbero giudicare tutto questo un’ingenuità e un sogno. Tuttavia, sognare […] è pur sempre possibile, e se sogniamo in molti, i sogni possono diventare realtà” [p. 125].

Le pagine del volume meritano un’attenta lettura, soprattutto da parte dei giovani, perché rappresentano la straordinaria testimonianza di chi, in 70 anni di esperienza nel campo della scienza dei farmaci, ha saputo coniugare amore per la conoscenza, capacità organizzativa e dedizione per la cura delle persone. Un messaggio in grado di ispirare chi non ha perso la speranza di poter cambiare in meglio il mondo: a cominciare dalla realizzazione dei fondamentali diritti alla salute e alla scienza.

Vaccini e beni comuni della conoscenza

Roberto Caso. 27 gennaio 2022, pubblicato su Alto Adige del 29 gennaio 2022 con il titolo “Rinunciare ai brevetti sui vaccini (per salvarci)” e su L’Adige del 30 gennaio 2022 con il titolo “Vaccini, trogliere brevetti e segreti“.

Nelle ultime settimane hanno avuto risonanza due notizie.

1) La messa a punto da parte del Texas Children’s Hospital e del Baylor College of Medicine di un vaccino anti COVID-19 privo di brevetti: il CORBEVAX, frutto degli studi coordinati da Peter Hotez e Maria Elena Bottazzi.

2) Un editoriale del prestigioso The British Medical Journal nel quale si è formulato l’appello a pubblicare immediatamente i dati relativi ai trials clinici sui vaccini in corso di somministrazione (Pfeizer, Moderna ecc.).

Cosa lega le due notizie? Una concezione della lotta contro la pandemia basata su beni comuni della conoscenza e scienza aperta.

Il CORBEVAX è riconducibile una tecnologia tradizionale – proteine ricombinanti – risultato di ricerche finanziate con donazioni private di modestissima entità. Per la precisione si tratta di sette milioni di dollari, un’inezia a confronto con i miliardi di fondi pubblici piovuti sulle Big Pharma. Il vaccino privo di brevetti costituisce una promessa importante: può essere ovunque prodotto a costi contenuti, conservato agevolmente e venduto a prezzi bassi: si stima 1,5/2 dollari a dose. Inoltre, deriva da una tecnologia tradizionale, ampiamente utilizzata anche per altri vaccini e sicura.

I vaccini delle Big Pharma occidentali poggiano oltre che su una fittissima rete di brevetti e sul segreto commerciale anche su dati di sperimentazione clinica tenuti riservati in base a una legge speciale (c.d. esclusiva sui dati). Ad esempio, Pfizer dichiara che darà accesso ai dati da maggio 2025, Moderna da ottobre 2022. Da qui la richiesta di disponibilità immediata avanzata sul British Medical Journal. Ferma restando la fiducia nei vaccini come uno degli strumenti fondamentali per la prevenzione della malattia, occorre che tutti possano accedere ai dati dei trials e condividerli per effettuare le opportune verifiche e praticare una delle norme fondanti della scienza: lo scetticismo organizzato. La scienza, infatti, non può esistere senza la pubblicità e la riproducibilità dei dati.

Tra i maggiori ostacoli a vaccinare il mondo spiccano: la proprietà intellettuale e la diffidenza verso i vaccini. La proprietà intellettuale è una delle ragioni per le quali nel sud del mondo pochi hanno accesso ai vaccini. La ritrosia a vaccinarsi riguarda soprattutto i sieri incentrati sulle nuove tecnologie vaccinali come quelle a mRNA.

Viene da chiedersi, riavvolgendo il nastro della storia a due anni fa, se l’evoluzione della pandemia sarebbe stata diversa in un mondo disposto fin da subito a puntare tutto sulla cooperazione e sulla condivisione della conoscenza. Forse avremmo meno paure irrazionali, meno disuguaglianze e persino meno morti e malati.

Per non ripetere gli errori fin qui commessi occorre ripensare profondamente il nostro sistema di ricerca e il nostro sistema sanitario. Cambiare paradigmi consolidati è, come ha rilevato Maria Elena Bottazzi, moralmente necessario.

Da dove cominciare? Dal rapporto tra ricerca finanziata con fondi pubblici e proprietà intellettuale.

Un esempio viene dalla politica anti-brevettuale del prestigioso Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS. Perché rinunciare ai brevetti? La risposta è sul sito web dell’istituto: “per essere liberi”. Liberi da conflitti di interesse, liberi di criticare, liberi di comunicare, liberi di collaborare. “Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi”.

Proprietà intellettuale e pandemia: una guerra (tra uomini)

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mural_del_Gernika.jpg

Roberto Caso

1° dicembre 2021 (“I brevetti e la sporca guerra“, Alto Adige, 3 dicembre 2021, “Pandemia e proprietà intellettuale“, Adige, 5 dicembre 2021)

Il dibattito sulla sospensione a livello internazionale degli accordi relativi proprietà intellettuale torna alla ribalta dei mass media. Su giornali, televisioni e web si riaccendono discussioni rimaste sopite nelle ultime settimane.

I motivi della rinnovata attenzione sono almeno tre: la diffusione della variante Omicron, il rinvio della riunione in presenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) che avrebbe dovuto discutere in questi giorni la proposta avanzata già nell’ottobre 2020 da India e Sudafrica di sospensione degli accordi sulla proprietà intellettuale nel ambito del commercio internazionale (TRIPS), la convocazione per questa settimana da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di una sessione speciale dell’assemblea globale della sanità che dovrebbe iniziare a discutere di un nuovo trattato per la prevenzione delle pandemie.

Gli organi di informazione ci sbattano in faccia i dati di quella che è stata definita, a giusta ragione, una catastrofe morale. Mentre il ricco Occidente si affretta a somministrare la terza dose di vaccino e irrobustisce le misure per convincere od obbligare chi non ha assunto nemmeno la prima, nei Paesi meno sviluppati e in quelli poveri le percentuali di vaccinati sono irrisorie. I motivi della difficoltà a vaccinare le proprie popolazioni da parte di Stati economicamente svantaggiati sono molti. Tra questi figura, senza dubbio, l’impossibilità di poter usare conoscenze e tecnologie protette dalla proprietà intellettuale occidentale.

La retorica del “o ci si salva tutti assieme, o non ci si salva” suona come un sinistro ritornello che stride con la conta (parziale) dei milioni di morti. I ricchi Paesi occidentali, con in testa la nostra Unione Europea, non vogliono rinunciare al dominio tecnologico e a proteggere le grandi case farmaceutiche. Il macabro balletto di dichiarazioni confuse e contradditorie con mezze aperture subito smentite da intransigenti chiusure rende chiaro che non ci sarà nessun serio intervento volto a sospendere a livello internazionale e nazionale la proprietà intellettuale (non solo i brevetti) su farmaci (non solo i vaccini) e dispositivi medici utili a contrastare la pandemia.

Né gli argomenti solidaristici – riflessi nei sempre più numerosi appelli e petizioni della società civile – né quelli egoistici – “il virus e le sue mutazioni non conoscono frontiere” – sembrano far breccia nei decisori politici.

Il divario tra principi fondanti delle nostre democrazie – uguaglianza e solidarietà – e quel che viene messo in pratica dai governi si fa baratro. Lo ha denunciato recentemente il Presidente Mattarella con riferimento a quel che accade ai migranti che tentano di trovare rifugio in Europa. Si ripropone per la vicenda dei milioni di persone che meriterebbero di trovare protezione sanitaria dal virus e che invece sono abbandonati a sé stessi.

Il problema non sta solo nella politica e nel diritto dell’emergenza – la sospensione temporanea della proprietà intellettuale – ma nella proprietà intellettuale in sé. La proprietà intellettuale è pensata per competere al fine di ottenere il controllo monopolistico della conoscenza. Per elevare barriere e steccati intorno alle tecnologie. A livello geopolitico per dominare chi non è in grado “produrre” proprietà intellettuale. L’esatto contrario di quello che di cui ha bisogno l’umanità per questa, per le prossime pandemie e per altre minacce come il cambiamento climatico.

Il problema sta anche (e soprattutto) nella politica e nel diritto del futuro. Insomma, ci sarebbe bisogno di una riforma organica del sistema di produzione della conoscenza. In particolare, andrebbe ripensato il rapporto tra la conoscenza prodotta con fondi pubblici dalle istituzioni non orientate al profitto e quella prodotta dalle imprese. In decenni di deriva neoliberista è stato costruito un sistema che determina il paradosso – ben visibile in campo farmaceutico – che la conoscenza prodotta con fondi pubblici finisce per essere privatizzata. Ciò è inaccettabile: lo Stato paga una prima volta finanziando la ricerca e una seconda volta comprando il farmaco dalle imprese. Ma soprattutto perde il controllo della tecnologia. Se l’impresa farmaceutica (pur finanziata con fondi pubblici) è lasciata libera di controllare la tecnologia con segreti e brevetti, sarà l’unica a decidere a chi e a quanto vendere.

A leggere i vari piani e strategie dell’Unione Europea e dell’Italia – dai piani d’azione sulla proprietà intellettuale al PNRR – l’auspicato ripensamento del sistema di produzione della conoscenza non è neanche all’orizzonte. Le indicazioni che emergono dai documenti istituzionali sono chiare: rafforzamento della proprietà intellettuale e del trasferimento tecnologico da università ed enti di ricerca a imprese.

Insomma, quando si parla di “strategia” della proprietà intellettuale su farmaci e dispositivi medici, si parla di guerra. Ma per favore non chiamiamola retoricamente “guerra contro il virus”. È la solita sporca guerra tra uomini, solo che il sangue non è immediatamente visibile.

La borsa e la vita

VI convegno annuale dell’Associazione Italiana per la promozione della Scienza aperta (in videoconferenza)

AISA – Scienza aperta – VI convegno annuale

La borsa e la vita. Scienza aperta e pandemia

Il sesto convegno annuale dell’AISA, organizzato dall’Università di Palermo, si è svolto il 14 -15 ottobre 2021 in teleconferenza.

Video disponibili qui:

– sessione del 14 ottobre: <https://www.youtube.com/watch?v=Rcb_gDpA2Q4>
– sessione del 15 ottobre: <https://www.youtube.com/watch?v=8Xzyj-KfD3Q>

Le slide sono disponibili qui di seguito.

Roberto Caso, Introduzione

Massimo Carboni, GARR, GARR e l’esperienza di strumenti aperti. Un modello di federazione delle risorse di video conferenza

Rossana Ducato, University of Aberdeen, Guido Noto La Diega, University of Stirling, Questioni aperte in tema di diritto d’autore e privacy nell’Internet delle piattaforme per la didattica a distanza

Davide Borrelli, Università Suor Orsola Benincasa, La disruption valutativa della scienza: che cosa ci ha insegnato la pandemia?

Paola Galimberti, Consiglio direttivo AISA, Università di Milano, Contratti trasformativi: un passo avanti per chi?

Giovanni Destrobisol, Consiglio direttivo AISA, Sapienza Università di Roma, Paolo Anagnostou Sapienza Università di Roma, e Marco Capocasa, Sapienza Università di Roma, COVID-19 e Open Access

Stefano Ruffo, SISSA, CRUI, L’azione della CRUI a sostegno della Scienza Aperta

Nicoletta Dentico, Health Justice Programme, Society for International Development (SID), Geopolitica della proprietà intellettuale in tempo di pandemia

Caterina Sganga, Scuola Sant’Anna di Pisa, Brevetti, pandemie, crisi sanitarie: flessibilità di oggi e riforme necessarie per domani

Giorgia Bincoletto, Paolo Guarda, Università di Trento, Gestione dei dati clinici e scienza aperta: la minaccia della data exclusivity

Vaccini anti-COVID tra segreti e brevetti

Roberto Caso, Vaccini anti-COVID tra segreti e brevetti, L’Adige 27 maggio 2021

Il mondo dopo la pandemia sarà migliore? A giudicare da come le potenze occidentali si stanno muovendo sulla vicenda dei brevetti e dei segreti commerciali sui vaccini, la risposta è decisamente: no. Insomma, la proprietà intellettuale costituisce un banco di prova, uno dei tanti, di quel che ci aspetta nel prossimo futuro. E, appunto, non c’è da essere ottimisti.

Riassumendo: per mesi si sono susseguiti appelli della società civile volti ad allentare le maglie dei diritti di esclusiva sulla tecnologia necessaria per prevenire e curare il COVID-19 su scala globale. La richiesta si è fatta via via più pressante per i vaccini. Le ripetute dichiarazioni del Papa sul vaccino come bene comune, le petizioni di autorevoli scienziati e capi di governo, le prese di posizione di molte associazioni come Medici Senza Frontiere, Oxfam ed Emergency, l’iniziativa “Nessun profitto sulla pandemia” hanno chiesto una limitazione della proprietà intellettuale. Nessuna delle iniziative ha finora prodotto esiti concreti. Dopo qualche (immotivato) entusiasmo suscitato dalle parole pronunciate a inizio maggio da una rappresentante dell’amministrazione americana che aprivano spazi di discussione in seno all’Organizzazione Mondiale sul Commercio, i successivi appuntamenti internazionali hanno rimesso l’Occidente in riga, riposizionandolo sulla difesa a oltranza dei diritti di proprietà intellettuale. Risultato: i paesi poveri e in via di sviluppo rimarranno fuori dalla copertura vaccinale ancora a lungo. Non è solo ingiusto nei confronti di miliardi di persone, è anche rischioso per l’Occidente. Come molti hanno rilevato, finché il virus circolerà e muterà nessuno può dirsi fuori dalla pandemia.

Eppure, alcuni politici come Boris Johnson e commentatori – anche in Italia – continuano a sostenere che la produzione dei vaccini sia un innegabile e rapido successo della ricerca privata mossa dal profitto e dall’avidità.

Questa narrazione distorce la realtà attuale e dimentica la storia, anche quella recente.

Sul piano della contemporaneità trascura il fatto che il governo degli Stati Uniti – implicito o esplicito modello di riferimento per chi celebra le virtù salvifiche del mercato – ha usato poteri e risorse economiche per guidare la produzione e la distribuzione dei vaccini. Ha finanziato la ricerca di base, detiene brevetti chiave della tecnologia mRNA, ha riversato fiumi di denaro sulle case farmaceutiche (in particolare, su Moderna), ha numerosi strumenti giuridici per fare pressione sulle case farmaceutiche.

Sul piano storico è immemore del fatto che le grandi campagne vaccinali che hanno sconfitto o drasticamente ridotto l’incidenza di malattie come il vaiolo e la poliomielite sono il frutto di sforzi collettivi volti a coordinare settore pubblico e settore privato. Non solo. Sono il frutto dell’etica della scienza aperta, cioè della scienza pubblica e democratica mossa dal solo desiderio di far progredire la conoscenza. Nella campagna vaccinale contro la poliomielite sono rimaste celebri le dichiarazioni di Salk e Sabin contro i brevetti.

La pandemia doveva essere un’occasione per ripensare la distribuzione dei ruoli del settore pubblico e di quello privato nonché per ridisegnare le politiche della proprietà intellettuale. Invece ha messo tragicamente in evidenza che le geopolitica si fa anche con i vaccini e che il nostro orizzonte valoriale si restringe sempre di più.

Un bel paradosso se si pensa che la nostra capacità di reagire al COVID-19 dipende innanzitutto da una prassi riconducibile all’etica della scienza aperta: la condivisione delle sequenze genetiche del virus e delle sue varianti. Una condivisione iniziata a gennaio del 2020 quando un gruppo di ricercatori cinesi depositò su Internet in accesso aperto la sequenza del SARS-Cov-2.

Pandemia e vaccini. L’irrisolvibile antagonismo tra scienza aperta e proprietà intellettuale

Immagine tratta da: M. Gaviria, B. Kilic, A network analysis of COVID-19 mRNA vaccine patents, Nat Biotechnol 39,546–548 (2021). https://doi.org/10.1038/s41587-021-00912-9

Pandemia e vaccini. L’irrisolvibile antagonismo tra scienza aperta e proprietà intellettuale

Versione 2.0 24 maggio 2021 – Trento LawTech Research Paper series nr. 44, in in Rivista critica del diritto privato, nr. 2/2021 (con il titolo Pandemia e vaccini: scienza aperta o proprietà intellettuale?), (per commenti, critiche e segnalazioni di errori si prega di scrivere a roberto.caso@unitn.it)

Roberto Caso

1. Introduzione

La pandemia ha messo drammaticamente in evidenza che il mondo ha bisogno di cooperare condividendo dati, informazioni, conoscenza.

Le misure di distanziamento sociale hanno accresciuto il ruolo di Internet come strumento per lo svolgimento di attività essenziali come la ricerca scientifica, l’insegnamento nella scuola e nelle università nonché la fruizione del patrimonio culturale.

La scienza aperta si basa sull’idea che la conoscenza si costruisce pubblicamente, in modo democratico e cooperativo. L’Open Access e l’Open Science (OS) non sono mossi dal profitto né dall’ambizione di scalare classifiche che contano le citazioni dei testi scientifici, ma dall’intenzione di far progredire la conoscenza. Nell’epoca della stampa erano libri e riviste che facevano viaggiare le idee. Oggi le idee viaggiano su Internet. Perciò, il diritto umano alla scienza assume la connotazione di diritto umano alla scienza aperta e si relaziona al diritto alla salute e alla vita.

Basterà qui ricordare che la nostra capacità di reazione al virus dipende da un gesto riconducibile alle prassi della scienza aperta: la pubblicazione della sequenza genetica del virus SARS-CoV-2 su archivi ad accesso aperto a inizio gennaio 2020.

Le leggi sui diritti di proprietà intellettuale (DPI) sono pensate, all’opposto, non per cooperare ma per competere al fine di generare profitto. Rispondono alla logica del “vincitore prende tutto” – the winner takes all – e… decide. Il primo che conquista il diritto di esclusiva (monopolio) decide se e a chi concedere l’uso del bene immateriale protetto (l’invenzione industriale o l’opera dell’ingegno). Brevetti per invenzione, diritti d’autore e segreti commerciali costituiscono barriere che impediscono accesso e condivisione della conoscenza.

La proprietà intellettuale è una categoria occidentale, parte integrante del sistema capitalistico, che è stata imposta dall’Occidente al mondo tramite trattati internazionali e altri mezzi di pressione. Sebbene i DPI possano spettare allo Stato, sono pensati, nei sistemi capitalistici, per essere attribuiti o per essere ceduti dal settore pubblico alle imprese. Oggi anche grandi paesi non occidentali, come la Cina, sono diventati entusiasti sostenitori dei diritti di esclusiva sui beni immateriali. Tali diritti di esclusiva sono stati progressivamente rafforzati tanto da avvicinarsi al controllo dei mattoni fondamentali della conoscenza: i dati e le informazioni. Per tornare alle sequenze genetiche, occorre ricordare che nel 2013 la Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Myriad decise di negare la brevettabilità delle sequenze genetiche. Ma in quello stesso paese recenti iniziative legislative hanno tentato di sovvertire il principio stabilito dalla corte. Inoltre, accanto alla proprietà intellettuale in senso stretto vi sono altre forme di controllo esclusivo basate sui contratti e sulla tecnologia. In ambito farmaceutico poi esiste un altro strumento giuridico di controllo privato: si tratta della data exclusivity o market exclusivity sui test clinici che proibisce al produttore di farmaci generici di usare, per un determinato periodo di tempo, i dati dei trials del produttore del farmaco brevettato.

La proprietà intellettuale perciò incombe sul sistema della scienza aperta, determinando il rischio di vanificarne gli sforzi. Condividere dati e informazioni in accesso aperto in un mondo disseminato di proprietà intellettuale distorce le finalità della scienza aperta: da strumento di libertà a meccanismo di asservimento alle logiche della privatizzazione, della mercificazione e della valutazione accentrata, tipiche del capitalismo dei dati. Di più, sulla scienza aperta incombe il controllo delle infrastrutture da parte di grandi entità commerciali. Il sistema delle infrastrutture comunicative della scienza (dalla gestione dei dati fino alla didattica) è saldamente nelle mani delle grandi imprese di analisi dei dati. L’analisi dei dati, unita alle derive che preconizzano la fine del metodo scientifico tradizionale e la sua sostituzione con Big Data e intelligenza artificiale, determina minacce inedite ai principi di libertà e autonomia scientifica.

Questo scritto intende affrontare criticamente il tema della proprietà intellettuale in campo biomedico e sanitario, con particolare riferimento alla questione dell’equa e rapida distribuzione su scala globale dei vaccini anti-COVID-19. La tesi di fondo non è nuova: la scienza aperta è inconciliabile con politiche di estensione e rafforzamento della proprietà intellettuale. Pur non essendo nuova, la tesi merita un approfondimento in relazione al dibattito pubblico in corso e alle scelte politiche nazionali e internazionali. La pandemia ha ampliato in modo esponenziale la portata di tale dibattito prima confinato in circoli accademici.

Innanzitutto vanno passati in rassegna e confutati gli argomenti a favore dei brevetti sui vaccini.

Inoltre, per comprendere le implicazioni del tema, occorre distinguere le politiche della proprietà intellettuale “a monte” da quelle “a valle”.

“Politiche a valle” sono quelle che concernono, ad esempio, le licenze obbligatorie dei brevetti, la sospensione dell’accordo Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio o World Trade Organization (WTO) con riferimento ai diritti di proprietà intellettuale su vaccini, farmaci e dispositivi medici, l’attivazione di tutele antitrust, nonché le iniziative internazionali che invitano i detentori della tecnologia alla condivisione volontaria di DPI e know how.

“Politiche a monte” riguardano la distribuzione dei ruoli del settore pubblico e del settore privato, la funzione delle università e degli istituti di ricerca pubblici, la definizione dei confini dei diritti di proprietà intellettuale.

Sebbene molta parte del dibattito sia in questo momento focalizzata sulle politiche a valle, non c’è dubbio che le maggiori debolezze del sistema attengono a scelte riguardanti le politiche a monte. Tali debolezze a monte rendono limitatamente efficaci o ineluttabilmente tardivi interventi a valle (ad es. l’imposizione di licenze obbligatorie sui brevetti). Inutile sottolineare che si ti tratta di debolezze e ritardi che il mondo sta pagando a carissimo prezzo.

In questo tornante della storia, anche se è necessario ed urgente mettere in atto alcune politiche a valle, occorre altresì non perdere l’occasione per ripensare le politiche a monte. Solo ridisegnando le politiche a monte si può sperare di giungere preparati ad altri eventi catastrofici come l’attuale pandemia.

Si prenderà le mosse dalla confutazione degli argomenti a favore di brevetti privati sui vaccini (paragrafo 2), per poi offrire una sintesi del dibattito sulle politiche a valle (paragrafo 3), discutere alcune politiche a monte (paragrafo 4) e infine svolgere alcune conclusioni (paragrafo 5).

2. Argomenti a favore dei brevetti sui vaccini e confutazioni

2.1 Argomento degli incentivi

L’argomento più diffuso e ripetuto a favore dei brevetti sui vaccini è quello degli incentivi. L’invenzione è un’informazione, bene non escludibile e non rivale il cui mercato in regime di concorrenza perfetta è destinato a fallire. I brevetti sono monopoli legali istituiti dallo Stato per consentire all’inventore di praticare prezzi monopolistici. La possibilità di praticare prezzi monopolistici costituisce un incentivo fondamentale. Limitare i brevetti ex post (ad es. con licenze obbligatorie) e a maggior ragione ex ante (ad es. escludendo i vaccini dalla brevettabilità) si tradurrebbe in una drastica diminuzione o azzeramento degli incentivi delle imprese a investire in ricerca futura (ad es. su nuovi vaccini che si rendano necessari per contrastare le varianti del virus). L’argomento si rifà a una delle teorie economiche a favore del brevetto. Solitamente è accompagnato dalla classica retorica anti-statalista che vede l’incentivo del profitto (o l’avidità) come unico motore dell’innovazione. Spesso si sposa anche con una narrativa che predica la rapidità con cui sono stati elaborati i vaccini anti-COVID-19. Nel racconto dei suoi sostenitori, sembrerebbe che l’elaborazione dei vaccini sia un successo innegabile e insperato raggiunto in pochi mesi soprattutto grazie alla ricerca privata. Inoltre, sembrerebbe che proporre un ruolo di maggiore importanza dello Stato nell’elaborazione e nella produzione dei vaccini costituirebbe una sorta di salto nel buio, una pericolosa rivoluzione rispetto a un modello consolidato di innovazione. Infine, l’argomento si muove nell’astrazione metafisica di un libero mercato concorrenziale globale.

L’argomento è debole sotto diversi profili.

Storia. L’uso dei vaccini per sconfiggere le grandi epidemie del passato come il vaiolo e la poliomielite si basa sul coordinamento di sforzi pubblici e privati che prescindono dall’uso di brevetti e proprietà intellettuale. Con riguardo alla poliomielite sono rimaste celebri le prese di posizione di Salk e Sabin contro i brevetti. La stessa rete di monitoraggio mondiale del virus dell’influenza (FluNet del Global Influenza Surveillance and Response System (GISRS)) che consente di mettere a punto ogni anno il vaccino adatto alla variante stagionale si basa sulla scienza aperta e sull’assenza di proprietà intellettuale.

Pubblico e privato. L’argomento sovrastima l’importanza delle imprese e l’incentivo del profitto. L’esempio americano è paradigmatico con riferimento proprio ai vaccini maggiormente innovativi, cioè quelli a mRNA. Il governo degli Stati Uniti ha finanziato la ricerca di base, ha la titolarità, tramite i National Institutes of Health (NIH), di diversi brevetti che costituiscono alcune delle maglie di un’intricata rete di diritti di esclusiva, dispone di meccanismi giuridici per rientrare nel controllo della proprietà intellettuale e ha contribuito finanziariamente alla ricerca sulla produzione dei vaccini (almeno nel caso del vaccino Moderna il finanziamento pubblico sembra nettamente prevalente).

Guadagni e innovazione. L’argomento sostiene che gli extraprofitti monopolistici si traducono automaticamente in investimenti nell’innovazione, mentre è provato che l’industria farmaceutica investe gran parte dei propri guadagni in altre attività che niente hanno a che vedere con l’innovazione (queste attività includono il lobbying presso i decisori pubblici al fine di ottenere leggi e provvedimenti favorevoli ai loro interessi).

Concorrenza e monopolio. L’argomento a favore dei brevetti viene generalmente presentato come pro-concorrenziale, mentre per definizione il brevetto conferisce una posizione monopolistica. La proprietà intellettuale è un monopolio, dunque rappresenta intrinsecamente un second best (nell’universo concettuale del libero mercato la condizione ideale è la concorrenza). Per questo i DPI sono limitati in durata e in ampiezza. Inoltre, nel mercato farmaceutico se ne avvantaggiano generalmente imprese che detengono una posizione di forza sul mercato (c.d. Big Pharma) e che spesso non hanno effettuato direttamente investimenti in innovazione (si giovano cioè di investimenti di altre imprese più piccole, ad es. start up). Insomma, almeno parte dei guadagni non va a chi ha investito in innovazione.

Brevetti e pensiero liberale. L’argomento è ancora più debole quando proviene da voci che si vorrebbero ascrivere al pensiero liberale, poiché quest’ultimo vanta una tradizione risalente e recente marcatamente ostile alla proprietà intellettuale.

Il brevetto come sistema perfetto. L’argomento descrive il sistema brevettuale come un sistema perfetto che premia i veri innovatori (individui o gruppi di individui la cui creatività sarebbe alimentata dal profitto). Mentre è noto che il sistema brevettuale non premia necessariamente i veri innovatori, ma quelli più rapidi nel deposito della domanda di brevetto (sistema del first to file), che il filtro degli uffici brevettuali spesso non funziona e vengono concessi brevetti a invenzioni che non meritano protezione, che gli uffici brevetti e il sistema di controllo giurisdizionale costano molto, che altri costi sono generati dall’incertezza del diritto (quali sono gli esatti confini del bene immateriale?), che i brevetti sono spesso non attuati e usati come potenti armi (ricattatorie) anticoncorrenziali (ad es. patent troll), che il sovraffollamento di DPI sempre più forti e frammentati costituisce un freno e non uno stimolo all’innovazione.

Il rapido e innegabile successo dei vaccini anti-COVID-19. L’argomento, come si è detto, descrive l’attuale produzione vaccinale come un successo. Mentre è evidente che l’attuale sistema, se osservato a livello globale non funziona. Come ripetuto infinite volte, o si vaccina il mondo rapidamente o non si esce dalla pandemia. D’altra parte, se si guarda oltre il COVID-19 si scopre che molte malattie che avrebbero richiesto investimenti nello sviluppo dei vaccini rimangono fuori dal raggio di azione degli incentivi mossi dal profitto. Malattie rare o diffuse in paesi in via di sviluppo sono fuori dal raggio di interesse mosso dal profitto.

2.2 Argomento dell’inutilità

Un secondo argomento a favore dei brevetti sui vaccini attiene all’inutilità di una loro limitazione (licenza obbligatoria), in quanto per produrre non è sufficiente accedere alla descrizione brevettuale, occorre accedere a segreti e know how. Com’è stato rilevato – da Ugo Pagano qui e Andrea Roventini qui – l’argomento si contraddice con quello degli incentivi. Se la limitazione del brevetto non serve a garantire indipendenza di produzione, allora giocoforza non intacca gli incentivi.

La verità è che la semplice limitazione del brevetto (la licenza obbligatoria) non garantisce di per sé l’autonomia produttiva, ma semplicemente la agevola. In altri termini, è condizione necessaria ma non sufficiente. Ciò significa, nell’ottica delle politiche a valle, che non bastano licenze obbligatorie dei brevetti, ma servono anche licenze obbligatorie sui segreti commerciali. Più aumenta il potere di intervenire sulle imprese, più la capacità decisionale e persuasiva dello Stato si accresce. Ovviamente, le licenze obbligatorie sui segreti commerciali, quando esercitate, non garantiscono allo Stato di riprendere il controllo totale della tecnologia, in quanto per entrare in possesso del segreto serve la collaborazione delle persone che lavorano nell’impresa. Tuttavia, rappresentano rilevanti mezzi di pressione.

2.3 Argomento geopolitico

L’argomento geopolitico sostiene che la limitazione dei brevetti e soprattutto il trasferimento di tecnologia avvantaggerebbe non tanto i paesi in via di sviluppo ma giganti come la Cina e l’India che hanno capacità produttiva, ma non hanno la tecnologia occidentale, soprattutto quella americana. In questo modo gli Stati Uniti perderebbero l’ultimo vantaggio tecnologico che rimane loro (quello delle biotecnologie), in quanto su altri fronti, come l’intelligenza artificiale, sarebbero già in affanno. L’argomento ha il pregio di essere schietto. Dà per scontato che non esiste un mercato globale in cui tutti possono partecipare ad armi pari alla competizione in cui vince il migliore e prende tutto. Piuttosto ci si muove in un contesto geopolitico in cui monopoli, barriere all’esportazione e altri mezzi di intervento degli Stati contano. Si tratta dunque di un argomento intrinsecamente anticoncorrenziale e marcatamente anticooperativo. Per ragioni geopolitiche è bene che l’Occidente difenda i suoi monopoli.

La debolezza di questo argomento è nella sua miopia. Per conservare un vantaggio tecnologico si rischia di prolungare all’infinito la pandemia con quel che ne deriva, anche per l’Occidente, in termini di vite umane e perdite economiche.

3. Politiche a valle

In questi mesi il dibattito politico e mediatico ha in gran parte riguardato iniziative come le licenze obbligatorie dei brevetti su farmaci e vaccini, la sospensione dei TRIPS per tutti i mezzi di prevenzione, contenimento e trattamento contro il COVID-19, e iniziative per condividere la tecnologia (anche il know how oggetto del segreto commerciale) alla base dei rimedi.

I margini di operatività di questo tipo di iniziative sono definiti a livello internazionale e nazionale. A livello internazionale rivestono importanza fondamentale i TRIPS del WTO.

Il WTO è la sola organizzazione globale riguardante le regole del commercio tra nazioni. Si basa su accordi (trattati) internazionali. Aderiscono al WTO 164 nazioni, tra le quali i paesi industrializzati. Il suo scopo è favorire il commercio internazionale. Essa non è parte delle Nazioni Unite. Se una nazione membro del WTO viola un trattato, un’altra nazione membro può rivolgersi al WTO che, attraverso un organo del General Council deputato a risolvere le controversie (il Dispute Settlement Body), può irrogare sanzioni. Tuttavia, il WTO non ha il potere di eseguire le sanzioni nello Stato membro. L’applicazione delle sanzioni è affidata agli stessi Stati membri e si basa su misure compensative o sanzioni commerciali (ad es. l’imposizione di dazi).

I TRIPS sono entrati in vigore nel 1995. I TRIPS obbligano gli Stati membri a implementare leggi di tutela dei DPI. In particolare, prevedono alcuni standard minimi di tutela di DPI come i diritti d’autore e connessi, i marchi, le indicazioni geografiche, i disegni industriali, i brevetti per invenzione, i segreti commerciali.

3.1 Licenze obbligatorie

I TRIPS prevedono limiti ai DPI. Tra i meccanismi di limitazione del potere di esclusiva dei DPI vi sono le licenze obbligatorie dei brevetti per invenzione (l’art. 31 TRIPS non parla letteralmente di licenze obbligatorie ma di Other Use Without Authorization of the Right Holder).

I brevetti per invenzione sono diritti di esclusiva territoriali, ovvero riguardano il territorio su cui lo Stato che li ha concessi esercita la sovranità. L’esclusiva riguarda una serie di attività: produrre il bene (nel caso dell’invenzione di prodotto), applicare il procedimento (nel caso dell’invenzione di procedimento), usare, mettere in commercio, vendere o importare. I brevetti vengono concessi sul riscontro da parte di un ufficio statale (ufficio brevetti) di una serie di requisiti: novità, attività inventiva, applicabilità industriale, sufficiente descrizione dell’invenzione.

Il brevetto dura vent’anni dalla data di deposito della domanda, con l’eccezione delle invenzioni farmaceutiche che possono godere di un’estensione temporale fino a ulteriori cinque anni (certificato di protezione complementare).

Il brevetto viene spesso presentato come un’opportuna alternativa – in quanto tale, meritevole di essere fortemente incentivata – al segreto commerciale. Il requisito della sufficiente descrizione serve a garantire che la domanda di brevetto, una volta pubblicata, possa trasmettere al pubblico i contenuti dell’invenzione. Ma la domanda non viene pubblicata immediatamente, bensì dopo la scadenza di un termine (generalmente 18 mesi dopo la sua presentazione all’ufficio brevetti). 18 mesi durante una pandemia come quella attuale sono un’eternità. Inoltre, le tecnologie alla base dei vaccini sono complesse non riguardano un singolo brevetto, ma reti di brevetti collegati l’uno con l’altro che possono essere nella titolarità di diversi soggetti contemporaneamente. Di più, le imprese farmaceutiche usano segreti commerciali e brevetti in modo complementare e non alternativo.

Normalmente la licenza è concessa volontariamente dal titolare del brevetto. La licenza obbligatoria è uno strumento giuridico in mano allo Stato che ha concesso il brevetto per riprendere il controllo decisionale sull’uso dell’invenzione. Con la licenza obbligatoria l’elemento della volontarietà, cioè del consenso del titolare, viene meno: lo Stato obbliga il titolare a concedere la licenza per alcune finalità predeterminate dalla legge. Ad esempio, lo Stato X impone all’impresa Y, titolare del brevetto A, di concedere la licenza all’impresa Z. La licenza obbligatoria non è un esproprio, perché lascia integra la titolarità del diritto di esclusiva, e prevede il pagamento di un equo compenso. Tra le tipologie di licenze obbligatorie figura quella per tutela della salute pubblica.

L’art. 31 dell’accordo TRIPS prevede l’ipotesi della licenza obbligatoria (Other Use Without Authorization of the Right Holder). La norma obbliga gli Stati membri del WTO a disciplinare normativamente l’imposizione della licenza obbligatoria subordinandola a una serie di requisiti molto stringenti, tra i quali vi sono i seguenti:

a) l’autorizzazione all’uso è concessa sulla base di casi specifici (cioè caso per caso e non via generale);

b) l’utente dell’invenzione che intende godere della licenza obbligatoria (nell’esempio: l’impresa Z) deve aver effettuato sforzi – essersi impegnato – per ottenere dal titolare del brevetto una licenza volontaria in base a termini e condizioni ragionevoli e tali sforzi devono essere risultati infruttuosi in un ragionevole periodo di tempo (da questo requisito si può prescindere in casi di emergenza nazionale o in altri casi di estrema urgenza);

c) lo scopo e la durata dell’uso oggetto della licenza devono essere limitati;

d) l’uso deve essere non esclusivo;

e) l’uso non è soggetto ad assegnazione a terzi;

f) l’uso deve riguardare prevalentemente il territorio dello Stato che ha imposto la licenza obbligatoria (in altre parole, il bene prodotto sulla base della licenza obbligatoria non può essere esportato verso altri paesi).

Nel 2001, a seguito delle istanze che venivano dai paesi che avevano difficoltà ad accedere ai farmaci coperti da diritti di esclusiva, la Dichiarazione di Doha ha affrontato il tema del conflitto tra la tutela dei DPI contenuta nei TRIPS e la tutela della salute, in particolare per quanto riguarda la cura di malattie come l’HIV, la malaria e la tubercolosi (la battaglia di Nelson Mandela contro Big Pharma costituisce uno dei capitoli più importanti di questa storia). A proposito delle licenze obbligatorie la Dichiarazione di Doha stabilisce che ciascun paese membro del WTO ha la libertà di concedere licenze obbligatorie e di determinare i presupposti per la concessione. Inoltre, stabilisce che ogni paese membro ha il diritto di determinare le ipotesi che costituiscono emergenza nazionale o altre circostanze di estrema urgenza, specificando che tra queste ipotesi rientrano le epidemie.

Nel 2005 i TRIPS sono stati modificati al fine di inserire l’art. 31-bis. Il requisito dell’uso prevalentemente territoriale della licenza non si applica, in base all’art. 31-bis, alla produzione e alla esportazione di prodotti farmaceutici verso i paesi meno sviluppati o i paesi che per emergenze nazionali o altre condizioni di estrema urgenza abbiano notificato al WTO l’intenzione di avvalersi dell’art. 31-bis.

Per dare attuazione all’art. 31-bis, l’Unione Europea ha emanato il Regolamento (CE) n. 816/2006 concernente la concessione di licenze obbligatorie per brevetti relativi alla fabbricazione di prodotti farmaceutici destinati all’esportazione verso paesi con problemi di salute pubblica.

A differenza di altri paesi – vedi qui e qui – l’Italia non ha una disposizione normativa che disciplini la concessione di licenze obbligatorie dei brevetti per motivi di salute pubblica. Il dato è di per sé sconcertante, anche considerando che recenti tentativi di inserire disposizioni di questo genere non sono andati a buon fine. Lo è ancora di più in tempi di pandemia durante i quali altri grandi paesi si sono affrettati a rafforzare i potere statali di limitazione dei brevetti (si pensi al Canada). Inoltre, alcuni paesi hanno fatto ricorso alle licenze obbligatorie o hanno minacciato di farvi ricorso. La semplice minaccia, infatti, costituisce già uno strumento di pressione verso i detentori privati della tecnologia. L’Italia, peraltro, ha una norma generale – l’art. 141 del codice della proprietà industriale – sull’espropriazione dei diritti di proprietà industriale, che alcuni commentatori ritengono incompatibile con i TRIPS. Va però precisato che il comma 2 stabilisce che:

L’espropriazione può essere limitata al diritto di uso per i bisogni dello Stato, fatte salve le previsioni in materia di licenze obbligatorie in quanto compatibili.

Di là dalle questioni nominalistiche, un provvedimento di esproprio opportunamente congegnato potrebbe forse funzionare come una licenza obbligatoria. Rimane comunque il fatto che sarebbe opportuno inserire una disposizione sulla licenza obbligatoria per tutela della salute pubblica.

3.2 La sospensione dell’accordo TRIPs

Il 2 ottobre del 2020 India e Sud Africa hanno avviato presso il WTO la procedura per chiedere una sospensione di alcune parti dell’accordo TRIPS. Più precisamente hanno chiesto che il Consiglio dei TRIPS raccomandi, il più presto possibile, al Consiglio Generale del WTO la sospensione (waiver) dell’attuazione, applicazione e tutela delle Sezioni 1 (copyright and related rights; diritti d’autore e connessi), 4 (industrial designs; disegni industriali), 5 (patents; brevetti per invenzione) e 7 (protection of undisclosed information; segreti commerciali) della Parte II dell’accordo TRIPS in relazione alla prevenzione, contenimento e trattamento terapeutico del COVID-19.

Occorre notare con attenzione due aspetti della richiesta di sospensione.

a) La sospensione dell’accordo TRIPS si traduce soltanto nel congelamento del sistema di tutela basato sul WTO (v., ad es., Contreras qui; Sganga qui). Senza sospensione, un’azione di limitazione dei DPI a livello nazionale potrebbe innescare un ricorso di uno Stato membro davanti al WTO e, nel caso di accoglimento per illegittima limitazione dei DPI, l’irrogazione di sanzioni che, come si è detto, dipendono in ultima istanza da misure da prendere a livello di Stati membri. In altri termini, la sospensione costituisce solo una premessa per azioni di limitazione – ad es., l’emanazione di provvedimenti statali che impongono licenze obbligatorie – che vanno prese a livello di singolo Stato membro.

b) La richiesta di India e Sud Africa non riguarda solo i brevetti sui vaccini ma un’ampia gamma di DPI compreso il segreto commerciale in relazione a tutto quello che serve a contrastare la pandemia (kit diagnostici, mascherine, ventilatori, farmaci, vaccini ecc.). Con riferimento ai vaccini, se la sospensione fosse attuata nei termini richiesti da India e Sud Africa, uno Stato membro potrebbe non solo limitare i brevetti sui vaccini mediante licenza obbligatoria, senza dover rispettare tutti i requisiti previsti dall’art. 31 dei TRIPS, ma potrebbe anche imporre la licenza obbligatoria dei segreti commerciali, che rivestono un’importanza fondamentale nella produzione. Soprattutto, la sospensione potrebbe facilitare nei paesi a basso reddito l’importazione della tecnologia.

Molti paesi hanno appoggiato la richiesta di India e Sud Africa, ma per mesi il blocco occidentale – con gli USA, il Regno Unito e l’UE in testa – si è opposto alla sospensione, nonostante un vastissimo movimento di opinione pubblica, alimentato da numerose iniziative (ad es. qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui) e prese di posizione pubblica, comprese quelle di Papa Francesco (vedi: qui e qui).

La possibilità di rivalutare la richiesta in sede WTO è stata riaperta dall’amministrazione Biden, attraverso una dichiarazione di Katherine Tai dell’Office of the U.S. Trade Representative rilasciata il 5 maggio 2021.

La dichiarazione premette che l’amministrazione Biden crede fermamente nella tutela della proprietà intellettuale, ma allo scopo di porre fine alla pandemia, sostiene la richiesta di sospensione dei DPI sui vaccini anti-COVID-19. L’oggetto della dichiarazione è molto più circoscritto rispetto alla richiesta di India e Sud Africa che riguarda tutti i mezzi di prevenzione, contenimento e trattamento terapeutico del COVID-19.

L’apertura dell’amministrazione americana è stata accolta in modo contrastante.

In questa sede occorre rilevare che il processo per rendere operativa la sospensione è lento e macchinoso. Inoltre, occorrerà osservare le mosse del governo americano per capire se è effettivamente disposto a condividere la tecnologia delle sue agenzie, delle sue università e delle sue imprese.

In ogni caso, la sospensione per essere efficace deve corrispondere a legislazioni nazionali che diano ampi margini di potere nell’attuazione di licenze obbligatorie su brevetti e segreti commerciali.

4. Politiche a monte

4.1 Il rafforzamento della proprietà intellettuale nell’Unione europea e in italia in tempi di pandemia

La tesi di questo scritto – si ricorderà – è che la scienza aperta è incompatibile con politiche di rafforzamento della proprietà intellettuale. Sebbene, l’Unione Europea cerchi di accreditarsi come promotrice dell’Open Science, sta di fatto che la sua politica in materia di proprietà intellettuale è univocamente puntata al rafforzamento dei diritti di esclusiva. Il bilanciamento tra proprietà intellettuale e altri diritti fondamentali è perciò affidato alla contraddittoria giurisprudenza della Corte di Giustizia oltre che al diritto degli Stati Membri.

In tempi di pandemia la politica di rafforzamento continuo dei DPI risulta ancor più incomprensibile. A dispetto di un movimento di opinione imponente, che vede crescere la cerchia degli accademici inclini a chiedere un ripensamento complessivo della proprietà intellettuale, la Commissione Europea sembra impermeabile al dibattito pubblico. L’ultima riprova di questo atteggiamento si rinviene nell’Action Plan sui diritti di proprietà intellettuale di supporto alla strategia di ripresa e resilienza del 25 novembre 2020. Il documento è un florilegio di affermazioni come le seguenti:

“The COVID-19 crisis has illustrated EU’s dependence on critical innovations and technologies, and reminded Europe of the importance of effective IP rules and tools to secure a fast deployment of critical IP. IPRs, and their role in a competitive and innovative European pharmaceutical industry, are also part of the new Pharmaceutical Strategy for Europe”. 

E ancora:

“[…] this action plan identifies five key focus areas, with specific proposals for action to:

upgrade the system for IP protection,

incentivise the use and deployment of IP, notably by SMEs,

facilitate access to and sharing of intangible assets while guaranteeing a fair return on investment,

ensure better IP enforcement, and

improve fair play at global level”

Il paragrafo 4 del documento si intitola “Easier access to and sharing of IP-protected assets”. La facilitazione dell’accesso e della condivisione della tecnologia protetta da DPI si basa sulle seguenti azioni.

“To facilitate licensing and sharing of IP, the Commission will:

-ensure the availability of critical IP in times of crisis, including via new licensing tools and a system to co-ordinate compulsory licensing (2021-22),

-improve transparency and predictability in SEP [Standard-essential patents] licensing via encouraging industry-led initiatives, in the most affected sectors, combined with possible reforms, including regulatory if and where needed, aiming to clarify and improve the SEPs framework and offer effective transparency tools (Q1 2022).

-promote data access and sharing, while safeguarding legitimate interests, via clarification of certain key provisions of the Trade Secrets Directive and a review of the Database Directive (Q3 2021)”.

Alle parole della Commissione fanno eco quelle del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) nelle “Linee di intervento strategiche sulla proprietà industriale per il triennio 2021-2023 aperte alla consultazione pubblica fino al 31 maggio.

Afferma il MISE:

“[…] i diritti di proprietà industriale (DPI) rivestono un ruolo cruciale poiché consentono di proteggere le idee, le opere e i processi frutto dell’innovazione, assicurando un vantaggio competitivo a chi li ha ideati; aprono la possibilità di valorizzare l’innovazione acquisendo nuovi mercati e offrono la possibilità di continuare ad investire sul futuro”.

Dunque:

“Accogliendo lo specifico invito della Commissione [UE], il documento delinea la strategia e gli interventi nazionali per rispondere a cinque sfide individuate per rafforzare la protezione e l’applicazione della PI, garantendo uno sforzo congiunto per la ripresa economica:

–  migliorare il sistema di protezione della PI

–  incentivare l’uso e la diffusione della PI, in particolare da parte delle PMI

–  facilitare l’accesso ai beni immateriali e la loro condivisione, garantendo nel contempo un equo rendimento degli investimenti

–  garantire un rispetto più rigoroso della proprietà industriale

–  rafforzare il ruolo dell’Italia nei consessi europei ed internazionali sulla proprietà industriale”.

Rimarchevole la visione sulla proprietà industriale delle università e degli enti di ricerca:

“Ulteriore elemento che appare non consentire un’agevole connessione tra il sistema della ricerca e il mondo delle imprese è il livello di maturità tecnologica dei brevetti proposti, troppo spesso insufficiente per poter essere percepito come interessante dagli imprenditori. Sotto questo profilo l’obiettivo da perseguire è quello di mettere a disposizione delle imprese invenzioni maggiormente “comprensibili” e quindi in uno stato quasi, se non, prototipale.

Per innalzare il livello di maturità delle invenzioni brevettate dai soggetti appartenenti al mondo della ricerca pubblica affinché possano diventare oggetto di azioni di sviluppo da parte del sistema imprenditoriale, il Ministero propone di replicare, adeguandolo ad eventuali nuove esigenze che si dovessero manifestare, il bando già emanato nel 2020 per il finanziamento di progetti di proof of concept capaci, a seguito della loro realizzazione, di mettere a disposizione per la successiva valorizzazione veri e propri prototipi. Ad oggi sono stati finanziati 23 progetti (dei 45 ritenuti ammissibili) utilizzando interamente i 5,3 milioni di euro di risorse finanziarie disponibili”.

Un dubbio sorge spontaneo di fronte a queste affermazioni. Se la ricerca pubblica deve presentare al mercato invenzioni mature, dove sta l’innovazione del mercato? Ad esempio, nel campo dei vaccini se un’università pubblica elabora una tecnologia vaccinale matura, in base a cosa si giustifica la sua cessione al settore privato?

Ma il passaggio che evidenzia maggiormente lo sguardo largo e profondo del MISE su proprietà industriale e tutela della salute pubblica è il seguente:

“Nel suo Piano di azione la Commissione UE ricorda che “L’accordo dell’OMC sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPS) prevede la possibilità, alle condizioni ivi specificate, di rilasciare licenze obbligatorie, ossia stabilisce che la pubblica amministrazione ha il potere di autorizzare un soggetto a usare un’invenzione brevettata senza il consenso del titolare del brevetto. La procedura può essere accelerata in caso di emergenza nazionale. Dal combinato disposto di tali norme con la dichiarazione di Doha sull’accordo TRIPS e la salute pubblica emerge chiaramente che ogni membro dell’OMC ha non solo il diritto di concedere licenze obbligatorie, ma anche la libertà di determinare i motivi in base ai quali tali licenze sono concesse”.

Sul punto, l’Amministrazione intende verificare la possibilità di introdurre nell’ordinamento nazionale strumenti specifici in grado di far fronte tempestivamente a situazioni di crisi, come quelle sanitarie; l’obiettivo da perseguire è quello di privilegiare accordi volontari in grado di contemperare gli interessi legittimi dei detentori delle privative industriali con quelli generali della collettività, ricorrendo al rilascio di licenze obbligatorie solo in caso di fallimento di qualunque altro tentativo”.

4.2. Pubblico e privato nel contrasto alle epidemie e alle pandemie

Il mondo è arrivato impreparato alla sfida di una produzione e distribuzione rapida ed equa di vaccini antipandemici su scala globale.

Serve ripensare il sistema a monte restituendo un ruolo di primo piano al settore pubblico e coordinando le azioni statali dei singoli paesi. La proprietà intellettuale è solo uno dei tasselli di questa strategia. Ma è un tassello importante. Come si è cercato di dimostrare, interventi a valle sono necessari, ma insufficienti.

Da questo punto di vista, è stato giustamente ricordato che le attuali pratiche di scienza aperta si basano essenzialmente sui pochi spazi di libertà lasciati liberi dai diritti di esclusiva e soprattutto sull’uso degli stessi diritti di esclusiva allo scopo di diffondere la conoscenza. Tuttavia, l’uso di licenze aperte come la GNU General Public License (GPL) e delle Creative Commons Licenses (CCLs), nonché il tentativo di estendere le licenze aperte al campo brevettuale non è sufficiente a costruire un ecosistema aperto della conoscenza.

Per costruire tale sistema occorre almeno:

a) Riformare le leggi sulla proprietà intellettuale;

b) Restituire al settore pubblico il controllo delle infrastrutture strategiche e contemporaneamente fare in modo che quelle lasciate in mano privata non siano concentrate nelle mani di pochi (cioè attivare un’efficace tutela dell’antitrust).

“Almeno” perché la complessità del problema richiede interventi giuridici da molteplici prospettive.

In questa sede ci si limita a indicare alcune possibili opzioni sul piano delle leggi in materia di proprietà intellettuale e di esclusiva dei dati clinici, nonché delle politiche universitarie in materia di proprietà intellettuale (c.d. trasferimento tecnologico).

4.3 Brevetti e segreti su farmaci e vaccini. Esclusiva sui dati clinici

Occorre riformare i trattati internazionali e le leggi nazionali per dare prevalenza al diritto alla scienza aperta, alla salute e alla vita sulla proprietà intellettuale.

Le opzioni di politica legislativa per dare concretezza a tali riforma sono molte. Qui se ne possono segnalare alcune in riferimento a tutte le conoscenze e le tecnologie utili alla produzione di farmaci, vaccini e dispositivi essenziali per la tutela della salute e della vita.

a) Sottrarre i beni essenziali alla brevettabilità e alla tutela del segreto commerciale. Abrogare l’esclusiva sui dati clinici. La sottrazione al controllo esclusivo può essere sostituita da altri meccanismi come i premi agli innovatori o le innovazioni che provengono da università e centri di ricerca finanziati con fondi pubblici delegando i test clinici a istituzioni pubbliche (vedi, ad es., qui).

b) Dare solo al settore pubblico il diritto di brevettare, specificando che l’uso in via diretta o mediante licenze d’uso non esclusive a imprese private sia finalizzato alla distribuzione equa dei beni essenziali.

4.4 Università, enti o istituti pubblici di ricerca e proprietà intellettuale

La finalità della ricerca pubblica non dovrebbe essere quella di brevettare, ma di praticare la scienza aperta. Il dirottamento verso logiche di privatizzazione della conoscenza si declina non solo nelle politiche e nella disciplina legislativa della proprietà intellettuale, ma anche nei sistemi di valutazione.

Ad esempio, in Italia la valutazione amministrativa di Stato, gestita da un’agenzia governativa che opera in base al potere della spada e non della bilancia, considera i brevetti universitari alla stregua di pubblicazioni scientifiche al fine di attribuire “punti” valutativi nelle molteplici classifiche che dovrebbero determinare la migliore ricerca delle migliori strutture e dei migliori scienziati. Ovviamente, negli algoritmi valutativi conta anche (e soprattutto) il numero dei c.d. “prodotti della ricerca”. Un elevato numero di brevetti può dunque tradursi in maggiori opportunità di scalare la classifica di turno.

Un altro esempio. Nella politica di Open Access dell’Unione Europea relativa ai programmi quadro di ricerca il brevetto viene visto come alternativa alla pubblicazione in Open Access. L’idea che c’è dietro questa equiparazione è che anche il brevetto è destinato a essere pubblicato (normalmente, come si è detto, dopo 18 mesi dalla domanda presso l’ufficio competente) e dunque sarebbe uno strumento di apertura della scienza. Ma questa idea, fintamente ingenua del brevetto, trascura il fatto che la descrizione del contenuto dell’invenzione è operata tatticamente dal richiedente e che queste tattiche interagiscono con le prassi degli uffici brevetti e delle corti che controllo l’operato degli uffici brevetti. In altre parole, solo se l’ufficio brevetti applica criteri rigorosi con riferimento alla descrizione dell’invenzione, allora il brevetto trasmette conoscenza, altrimenti lascia spazio al segreto commerciale (nel brevetto si descrive il minimo necessario a soddisfare formalmente il requisito di legge, ma la parte sommersa del know how viene controllata mediante segreto). L’esempio dei vaccini, come rilevato da molti, dimostra che il brevetto descrive solo una parte degli elementi utili alla produzione. Dunque, l’equiparazione tra brevetto e pubblicazione scientifica è fallace.

In Italia, a parte l’oscura vicenda Reithera, durante la pandemia si sono susseguiti annunci di università pubbliche connessi alla possibile scoperta di un nuovo vaccino “italiano” (vedi, ad es., qui e qui). Al di là della fondatezza scientifica e tecnologica degli annunci, spesso rivelatisi dei meri ballon d’essai per sondare finanziatori e imprese, rimangono pesanti dubbi di fondo.

Se un’università pubblica brevetta un vaccino lo fa per cedere in esclusiva i diritti a un’impresa? O lo fa per concedere licenze non esclusive a più imprese? Solo italiane o anche estere? Solo a imprese o entità pubbliche di paesi a basso reddito? In base a quale politica di gestione del vaccino? La politica di gestione del brevetto non deve essere decisa a monte?

In Italia il tentativo entusiastico e superficiale di imitare le politiche americane di trasferimento tecnologico basate sul Bayh-Dole Act del 1980 – che consente ai soggetti finanziati con fondi pubblici federali di brevettare le invenzioni elaborate a seguito del finanziamento, e soprattutto sul sistema di interfaccia tra università e imprese – ha fatto trascurare gli effetti collaterali di un’estesa brevettazione della ricerca pubblica. Il mantra del trasferimento tecnologico basato sui brevetti e altri DPI come pietra filosofale che trasformerebbe magicamente la ricerca di base in innovazione ha sottostimato le ricadute in termini di riduzione degli spazi di manovra delle norme sociali, della prassi e della mentalità della scienza aperta. Nonostante, la letteratura critica venga soprattutto dagli Stati Uniti, anche in riferimento alla questione della ricerca sui vaccini finanziata con fondi pubblici, i policy maker italiani hanno continuato a narrare il trasferimento tecnologico da università a imprese basato sui DPI come un strumento decisivo per risollevare un paese afflitto da un cronico ritardo sul piano dell’innovazione tecnologica (si vedano a mo’ di ultimo esempio le “Linee di intervento strategiche sulla proprietà industriale per il triennio 2021-2023 sopra citate) .

Ammesso (e non concesso) che questa narrazione corrisponda alla realtà, si può seriamente sostenere che possa valere per vaccini e altri farmaci essenziali?

Quale che sia la scelta a monte dei policy maker residua, grazie all’art. 33 Cost., a ogni istituzione pubblica di ricerca un margine di libertà e di scelta. Insomma, si può scegliere ancora di avere una politica di scienza aperta e di non brevettazione dei risultati della ricerca.

In Italia è il caso dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri presieduto da Silvio Garattini.

Nella pagina web dedicata all’argomento si intitola: “Perché non brevettiamo le nostre ricerche“.

Vale la pena riprendere alcune importanti affermazioni contenute nella pagina.

Perché quindi rimanere oggi al di fuori della impostazione brevettistica?

Lo facciamo soprattutto per essere liberi. Liberi nell’orientamento e nella selezione dei temi di ricerca. Se invece l’obiettivo fosse il brevetto e il suo sfruttamento, sarebbe inevitabile orientarsi verso ricerche economicamente sfruttabili.

LIBERTÀ DA CONFLITTI DI INTERESSE

Scegliere di non brevettare le proprie scoperte evita di cadere in un conflitto di interesse. Inevitabilmente essere titolari di un brevetto spinge a promuovere e difendere in ogni modo il proprio prodotto. Se per esempio si tratta di un farmaco può indurre a una valutazione del  rapporto fra benefici e rischi non sempre obiettiva.

LIBERTÀ DI CRITICA

Se il brevetto arriva a realizzare un farmaco – cosa poco frequente – è difficile essere oggettivi. La vendita del farmaco comporta royalties e il tentativo di massimizzarle diventa inevitabile. Inoltre, molti ricercatori hanno funzioni consultive, a loro possono essere richiesti pareri da parte delle autorità regolatorie o del Servizio Sanitario Nazionale. Come potranno essere distaccati nel giudizio nei confronti del loro farmaco o dell’azienda che lo produce oppure nei confronti dei prodotti concorrenti il cui successo rischia di far diminuire le royalties?

LIBERTÀ DI COMUNICARE

La realizzazione di brevetti richiede confidenzialità, segreto, mentre la scienza, in particolare quella biomedica, deve essere aperta e trasparente. La pubblicazione dei propri risultati può avere conseguenze inimmaginabili, può cambiare il corso delle ricerche di altri gruppi di ricercatori ed essere così punto di partenza per altre scoperte. I ricercatori hanno il dovere di dare informazioni corrette al pubblico attraverso i mass media, e quindi devono essere liberi di non avere remore o sottacere:

·      quando la comunicazione dei produttori dei farmaci eccede nel promuoverne gli effetti favorevoli o minimizza quelli dannosi,

·      quando si promettono inverosimili successi,

·      quando il costo dei farmaci è sproporzionato e insostenibile.  

È augurabile quindi che i ricercatori e i loro istituti siano scevri dal sospetto di avere interessi economici, in modo da fugare ogni dubbio da parte di chi viene informato.  Se si è privi di interessi diretti è più facile essere obiettivi.

LIBERTÀ DI COLLABORARE

In un mondo che richiede sempre più collaborazioni multidisciplinari con altre istituzioni è più facile interagire quando la collaborazione non nasconde la possibilità di utilizzare le idee degli altri per ottenere vantaggi per i propri brevetti.

In conclusione, non mettiamo in discussione l’importanza che l’industria tuteli i propri prodotti con il brevetto, ma suggeriamo che nella collaborazione tra industria e accademia ciascuno mantenga chiaro il proprio ruolo e il proprio profilo etico. Tra industria e accademia è necessario instaurare un reale interesse scientifico, che sia complementare fra le due parti, evitando strumentalizzazioni propagandistiche. Le istituzioni scientifiche non devono accettare fondi per ricerca che in realtà mascherino la richiesta di un supporto in altre direzioni.

Mantenere un’istituzione di ricerca in equilibrio costante fra la necessità di trovare risorse per fare ricerca, senza rinunciare alla propria libertà, alla dignità, allo spirito critico, è impresa difficile e complicata. Soprattutto in Italia, dove i fondi pubblici sono scarsi e male utilizzati. È quindi opportuno che l’opinione pubblica impari a distinguere fra chi cura interessi personali e chi si occupa di interessi della comunità, per non far mancare il suo sostegno a questi ultimi.

Dunque, non è peregrino immaginare un vaccino libero e aperto. Se un’istituzione finanziata con fondi pubblici decidesse di pubblicare la tecnologia vaccinale distruggerebbe il requisito della novità dell’invenzione impedendo ad altri di brevettare. Ovviamente, quel che succede dopo la brevettazione dipende sempre dal diritto e da come viene interpretato. Come si è già rilevato, praticare la scienza aperta in un campo minato (un contesto giuridico) disseminato di esclusive è difficile. L’alternativa, anch’essa da sperimentare e da verificare, è usare la proprietà intellettuale per rendere un eventuale nuovo vaccino un bene comune. Cioè di fare ricorso alla logica della GNU General Public License e delle Creative Commons applicandola alle biotecnologie.

5. Conclusioni

La vicenda della proprietà intellettuale sui vaccini è una pagina di un capitolo alquanto esteso della storia dell’arretramento del settore pubblico in un territorio – quello di infrastrutture, beni e servizi essenziali – di fondamentale importanza per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’umanità.

Quel capitolo narra molte altre vicende relative, ad esempio, al software, alle pubblicazioni e ai dati scientifici, al patrimonio culturale, all’agricoltura e alle sementi. In tutti questi settori l’arretramento del settore pubblico o una sua diversa concezione che lo modella sulla forma del (o lo mischia con il) settore privato votato al profitto, ha comportato il sacrificio dell’interesse generale di tutti a favore degli interessi particolari di pochi.

Ciò non significa necessariamente che lo Stato non sia presente nelle scelte decisive, significa solo che le logiche di profitto, di competizione e di dominio si sostituiscono a quelle di progresso, cooperazione e solidarietà. Il caso degli Stati Uniti è paradigmatico da questo punto di vista.

Perciò, la questione dei vaccini rimane geopolitica. L’irrisolvibile antagonismo tra scienza aperta e proprietà intellettuale non descrive solo la contrapposizione tra opposte concezioni del ruolo del settore pubblico, ma anche opposte concezioni di come usare sul piano internazionale l’immenso potere che proviene dalla conoscenza e dalla tecnologia.

La scienza dopo la pandemia sarà migliore? La risposta a questa domanda dipende da scelte che vanno prese adesso. L’importante è evitare le ambiguità, chiarire il significato delle parole come scienza aperta e proprietà intellettuale, e assumersi la responsabilità delle proprie scelte.

Riferimenti

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E. Paris (intervista a Roberto Caso), La salute pubblica contro Big Pharma. Si può vincere?, QT (Questo Trentino), 1° aprile 2021

E. Paris (intervista a Roberto Caso), La salute pubblica contro Big Pharma. Si può vincere?QT (Questo Trentino), aprile 2021

Vaccini anti-COVID19: bene comune o proprietà privata?

10 marzo, h 17.00 seminario on line

Presentazione

La produzione di vaccini anti-COVID-19 rappresenta, al momento, il dispositivo più rilevante per mettere fine alla pandemia. Il successo della campagna vaccinale mondiale dipende da molti fattori. Tra questi fattori vi sono anche gli strumenti giuridici di controllo esclusivo delle informazioni alla base della tecnologia dei vaccini. Brevetti per invenzione industriale, altre forme di proprietà intellettuale e segreti commerciali divengono oggetto di un’ampia discussione politica, filosofica, storica, economica e giuridica.

In particolare, il dibattito dispiegatosi nel primo anno di pandemia da coronavirus mette al centro dell’attenzione i brevetti sui vaccini. Da una parte, vi è chi difende il ruolo dei brevetti e della proprietà intellettuale come strumento irrinunciabile di incentivo all’innovazione. Dall’altra, un movimento di idee e azioni sempre più esteso reclama interventi normativi immediati che conducano i vaccini a essere un bene comune dell’umanità.

Occorre competere tra Stati, centri di ricerca e imprese per il controllo esclusivo di conoscenze e tecnologie, o invece occorre cooperare mettendo, innanzitutto, i vaccini in pubblico dominio?

La soluzione di tali quesiti chiama in causa anche problemi di geopolitica come il rapporto tra Paesi con diversi livelli di ricchezza, o l’uso strumentale dei vaccini da parte delle grandi potenze mondiali per estendere le proprie sfere di influenza. Di sicuro, si tratta di una discussione che non può essere ridotta ai soli termini economici. Il controllo monopolistico che deriva dal brevetto (e da altre forme di controllo esclusivo dell’informazione) non si traduce solo nel potere di fissare il prezzo al riparo dalla pressione concorrenziale, ma sposta l’asse del potere di decidere tempi e modi della produzione dei vaccini da centri decisionali pubblici a imprese private che operano per il profitto.

Inoltre, la soluzione dei quesiti in campo implica che si affronti il problema delle relazioni tra ricerca pubblica e industrie farmaceutiche. Ad esempio, ha senso che in Italia la ricerca sui vaccini sia svolta in competizione da diverse università e istituti di ricerca pubblici per poi essere brevettata e ceduta a
industrie farmaceutiche private (magari anche non italiane o europee)? È questo il modello migliore? O esistono alternative?

Per rispondere a queste domande l’Università di Trento in collaborazione con l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) organizza un seminario online durante il quale accademici, scienziati, medici, politici e attivisti si confronteranno proponendo diverse visioni del mondo. Ragionare
sulle sfide che l’attuale pandemia lancia al diritto dei brevetti e della proprietà intellettuale significa dialogare intorno non solo all’emergenza contingente ma anche all’adeguatezza dell’attuale sistema della proprietà intellettuale a risolvere i problemi che il futuro porrà (duramente) di fronte ai nostri occhi.

Programma

Il programma del seminario è disponibile qui.

Informazioni

Per partecipare è necessario compilare il seguente form di adesione online entro le ore 8.00 dell’8 marzo 2021.
A ridosso dell’evento verrà inviato a ciascun iscritto le credenziali per accedere.

Documentazione

Qui alcuni documenti sul dibattito in corso.

La ricerca sui vaccini tra brevetti e accesso aperto alla conoscenza scientifica

Università degli Studi di Perugia

Dipartimento di Giurisprudenza
Dottorato di Ricerca in Scienze Giuridiche XXXVI ciclo

9 marzo 2021

Lezione: slide disponibili anche su Zenodo

Letture:

R. Caso, Vaccini: proprietà di pochi o bene comune dell’umanità?, in Frammenti di un discorso pubblico, 8 febbraio 2021

R. Caso, F. Binda, Il diritto umano alla scienza aperta, Trento LawTech Research Papers, n. 41, Trento, Università degli studi di Trento, settembre 2020

R. Caso, La scienza non sarà più la stessa. Più condivisione, cooperazione e solidarietà dopo il Covid-19?, Trento LawTech Research Papers, nr. 39, Trento, Università degli studi di Trento, 2020, BioLaw Journal, v. 2020, n. 1s (2020), p. 617-622

R. Caso, La rivoluzione incompiuta. La scienza aperta tra diritto d’autore e proprietà intellettuale, Milano, Ledizioni, 2020

R. Caso, La commercializzazione della ricerca scientifica pubblica: regole e incentivi, in R. Caso (cur.), Ricerca scientifica pubblica, trasferimento tecnologico e proprietà intellettuale, Il Mulino, Bologna, 2005, 9

Documentazione sul dibattito relativo a open science, proprietà intellettuale e COVID-19